di Alia K. Nardini

È una vittoria sottotono quella di Mitt Romney in Nevada, in uno scenario decisamente diverso dall’agguerrita lotta della settimana scorsa in Florida. Nessun dibattito pubblico, poca pubblicità e scarso rilievo per questo caucus dunque, all’interno della battaglia per la nomination Repubblicana che vede in testa sempre più saldamente l’ex Governatore del Massachusetts. Nonostante i conteggi siano ancora in corso, le preferenze per Romney sembrano assestarsi intorno al 42%, anche grazie al sostegno dell’elettorato di fede mormone, più di un quarto nello stato. Sono molti inoltre qui a ricordare il lavoro svolto ottimamente nel 2002 nel confinante Utah, dove Romney organizzò le olimpiadi invernali.

Segue Gingrich, che con il 26% dei voti ha incassato a tutti gli effetti una sonora sconfitta – specialmente tenendo conto che tre elettori su quattro in Nevada si definiscono “molto conservatori” e si identificano nei Tea Parties, di cui l’ex speaker alla Camera si proclama il beniamino. Il pessimo risultato di Gingrich lo ha portato però a precisare che non intende ritirarsi, riproponendosi di contrattaccare con una “nuova strategia” che ambisce a portarlo “in sostanziale parità” con Romney con il super Tuesday del 6 marzo. Ron Paul ha conquistato un dignitoso terzo posto, con il 18% de voti, ben intercettando il consenso dei giovani e degli indipendenti. Solo il 13% delle preferenze è andato a Rick Santorum.

Il Grand Old Party nel Nevada non è stato per nulla soddisfatto della partecipazione al voto, in quella che si riconferma come l’inabilità dei Repubblicani di “energizzare”, come si dice in inglese, la base del partito e dunque di creare entusiasmo ed adesione per gli appuntamenti elettorali. D’altronde fu proprio la capacità di mobilitare gli elettori a portare Obama alla vittoria in questo stato nel 2008, con ben 12 punti di vantaggio su John McCain. Ciò nonostante, gli analisti prevedono che per il Presidente in carica sarà difficile replicare il successo di quattro anni fa, vista l’alta disoccupazione, la crisi dell’industria turistica (Las Vegas in testa) e i problemi nel mercato immobiliare con le ordinanze esecutive di sfratto oramai alle stelle. Intanto, gli iscritti al Partito Repubblicano in Nevada chiedono di abbandonare il complicato sistema dei caucus, al quale viene imputata la scarsa affluenza alle urne di sabato, insieme al Superbowl; e premono per poter tornare alle primarie, apparato che curiosamente venne abbandonato dopo le elezioni del 1996 proprio a causa della poca partecipazione, nel tentativo di coinvolgere maggiormente le comunità locali.

Lo scorso sabato, oltre al voto in Nevada, ha anche avuto inizio il caucus del Maine, che si concluderà l’11 di questo mese con l’annuncio dei risultati; come spesso accade nel complesso sistema dei caucuses, l’assegnazione di delegati tuttavia non avrà luogo fino alla convention dello stato, che si terrà il 5 e 6 maggio. Sorprendentemente, in Maine la sfida è un testa a testa tra Mitt Romney e Ron Paul: dove il primo, seppur non abbia investito particolarmente denaro né tempo in questo stato, gode di una solida reputazione per la popolare esperienza di governatorato nel vicino Massachusetts; Paul è ugualmente autorevole e convincente, e potrebbe ottenere un risultato importante. D’altronde, la strategia di Ron Paul è proprio quella di concentrare le sue risorse in piccoli stati, dove i delegati vengono assegnati secondo il sistema proporzionale e non maggioritario (il cosiddetto “winner takes it all”); in questo modo, il Rappresentante del Texas accumulerebbe un numero di preferenze significativo, anche senza aver necessariamente vinto in molti stati – preferenze che potrebbero rivelarsi estremamente influenti nella convention nazionale repubblicana di Tampa, in agosto.

Intanto, Romney si è spostato in Colorado, prossimo appuntamento martedì 7 febbraio insieme al Minnesota. Qui la parola d’ordine è occupazione: in un intervento a Colorado Springs, l’ex Governatore del Massachusetts ha criticato aspramente le misure di Obama per l’economia, in particolare lo Stimulus Bill da 787 miliardi di dollari che “qui non ha creato un singolo posto di lavoro”. Si tratta di una strategia rischiosa, specialmente dopo il comunicato del Dipartimento del Lavoro che venerdì scorso ha annunciato la creazione di 243mila nuovi posti nel mese di gennaio, mentre la disoccupazione è in calo all’8,3%, molto meglio di ogni previsione. C’è da dire però, come sottolinea lo stesso Romney, che già in passato sono pervenuti dati similmente incoraggianti, seguiti da cali repentini: ad esempio, ai miglioramenti del febbraio, marzo e aprile 2011 seguirono tagli di oltre 100mila posti di lavoro al mese, per ben quattro mesi consecutivi. In Colorado, Romney cercherà anche di intercettare il consenso degli indipendenti, che sono quasi un terzo degli iscritti alle liste elettorali; e più generalmente, tenterà di presentarsi come l’uomo che può battere Barack Obama. Anche nel caso del Colorado, trattandosi di un caucus simile a quello del Maine, è importante ricordare che i delegati verranno comunque scelti in data successiva (il 13 e 14 aprile), e quindi un’eventuale vittoria non garantisce direttamente voti per la nomination.

Un altro evento da tenere d’occhio domani sono le primarie del Missouri – primarie che tuttavia sono “non-binding”, vale a dire dagli esiti non vincolanti: secondo un sistema complesso, i risultati verranno ufficializzati con l’assegnazione dei delegati solo dopo il caucus che si terrà il 17 marzo. Il Missouri tuttavia rappresenta la grande chance di Rick Santorum, visto che in questo stato Gingrich non si è qualificato e non può dunque partecipare. Con uno dei rivali fuori gioco, se Santorum qui dovesse vincere dimostrerebbe di poter tener testa a Romney e quindi di rappresentare una reale alternativa per il partito.

Il dato più interessante riguardo ai prossimi appuntamenti è però il consenso per Rick Santorum, che in base ai sondaggi lo classifica secondo in Colorado con il 26% di voti dopo Romney (al 40%, PPP); e addirittura primo in Minnesota. Qui però i margini sono più stretti, con l’ex Senatore della Pennsylvania al 29%, Romney al 27% e Gingrich al 22%. Seppur questo non inciderà certo sulla sempre più certa nomination di Romney, una rimonta di Santorum potrebbe tuttavia costituire un centro importante intorno al quale potrebbero convergere i conservatori più tradizionalisti, la destra religiosa e i Tea Parties, esercitando così una notevole influenza (ad esempio attraverso un’eventuale vicepresidenza) nella corsa Repubblicana per sconfiggere Barack Obama.

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