di Alessandro Campi

imagesI popolari di Mariano Rajoy restano, nel rispetto delle previsioni della vigilia, il principale partito di Spagna: hanno ottenuto (a scrutinio completato) 123 seggi (28,7%), ben lontani dalla maggioranza necessaria per governare (nel 2011 avevano conquistato 186 deputati su 350). Dietro di loro ci sono gli storici avversari socialisti: ne hanno avuti 90 (22%) contro i 110 che possedevano cinque anni fa. Podemos di Pablo Iglesias non è riuscito dunque nel sorpasso a sinistra: col 20,6% dei consensi, un risultato comunque ragguardevole, ha conquistato 69 seggi. Il movimento Ciudadanos di Albert Rivera, deludendo in parte le attese, ha ottenuto il 13,9% dei consensi e 40 seggi.

La conclusione, scorrendo questi dati, è che non è possibile alcun governo che non sia quello di larga coalizione tra popolari e socialisti (un’ipotesi che soprattutto questi ultimi hanno categoricamente escluso in campagna elettorale). Altre coalizioni, basate su un minimo di compatibilità politico-ideologica tra i contraenti, non sembrano possibili. Sia quella di sinistra tra Ps e Podemos, sia quella tra i popolari e gli “estremisti di centro” di Rivera resterebbero sotto la soglia della maggioranza parlamentare (che è di 176 seggi). Insomma, un bel pasticcio, che fa prevedere un difficile periodo di instabilità, un prossimo ritorno alle urne o un governo di larghe intese Pp-Ps caldeggiato e benedetto, nell’interesse del Paese, dal nuovo sovrano Felipe VI (e dall’Europa di Bruxelles). A meno, ovviamente, di non voler perseguire la strada di un improbabile governo di minoranza.

Rajoy ha provato a convincere gli spagnoli che era preferibile un capo del governo incolore, pragmatico e di provata esperienza (peraltro buon amico della Merkel) rispetto ai leader da talk show che aveva come sfidanti: giovani, telegenici, dalla parlantina svelta, ma dai programmi fumosi e irrealizzabili. Ha altresì cercato di enfatizzare al massimo i discreti risultati economici ottenuti nell’ultimo anno. Ma non era facile far dimenticare i cinque milioni di spagnoli ancora disoccupati, il fallimento del sistema bancario nazionale (evitato formalmente solo grazie all’intervento tedesco-europeo), la crisi perdurante del settore immobiliare (quello che mandò in pezzi nel 2008 l’economia spagnola) e le ricette draconiane che sono state necessarie per avviare un minimo di ripresa economica: dalla privatizzazione del sistema sanitario e della scuola alla stretta sulle pensioni, dal blocco dei salari pubblici ai tagli della spesa sociale, da una legge sul lavoro che concede totale flessibilità in entrata e uscita all’abolizione della contrattazione collettiva a livello nazionale. Senza contare gli scandali nei quali si è trovato personalmente coinvolto. Il voto di ieri dimostra che oltre un terzo dell’elettorato non vuole più saperne dei due storici partiti che hanno retto la democrazia spagnola per quasi quarant’anni.

Continua dunque il processo di lenta ma inesorabile ristrutturazione dei sistemi politici delle principali democrazie europee. In parte determinata dalla grave crisi economica che le ha investite e che ne ha alterato in profondità gli equilibri sociali, causando disoccupazione di massa (soprattutto giovanile), nuove forme di povertà, un vasto precariato professionale e la disarticolazione dei vecchi sistemi di assistenza pubblica. In parte imputabile alla crisi di legittimità/credibilità che ha investito gli attori politici tradizionali, sempre più spesso al centro di scandali e di accuse di corruzione.

Ne è nato un forte e crescente malcontento popolare che, oltre a favorire la crescita dell’astensionismo elettorale e una sorta di rigetto nei confronti della politica, ha stimolato un po’ ovunque in Europa l’affermazione di gruppi e movimenti in senso lato anti-sistema. La loro caratteristica comune è di non riconoscersi nella destra e nella sinistra “ufficiali” o convenzionalmente intese. Di utilizzare, per distinguersi dai loro competitori, uno stile di comunicazione aggressivo e basato sulla denuncia del potere e delle oligarchie che lo detengono. Di possedere leadership eccentriche e altamente carismatiche. Di esercitare una forte presa soprattutto sull’elettorato giovanile. Di invocare una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Di avanzare richieste di un radicale cambiamento soprattutto nelle politiche economiche e nelle modalità di selezione dei gruppi dirigenti. Di essere animati da una grande carica polemica nei confronti della classe politica tradizionale e della sua tendenza a comportarsi in modo autoreferenziale e a sfruttare il potere a fini privati.

Questi partiti, diversamente da quelli di protesta di un tempo, non si limitano a catalizzare occasionalmente le frange lunatiche o dissidenti. Soprattutto non hanno le percentuali da prefisso telefonico che per esempio avevano in Italia il Msi o il Partito radicale, partiti strutturalmente condannati all’opposizione. Sono movimenti di massa che ambiscono alla conquista del potere (in alcuni casi già governano, al centro come in periferia) e che si stanno incistando nei rispettivi sistemi politici in modo stabile. Tra di loro presentano naturalmente diverse differenze (ad esempio alcuni sono euroscettici, altri europeisti), ma rappresentano ormai una sorta di “terzo polo” rispetto agli schieramenti tradizionali.

Lo si è visto in Italia nel febbraio 2013 con l’exploit alle urne del M5S e di Beppe Grillo. In Grecia con le elezioni che nel gennaio 2015 hanno determinato la vittoria di Alexis Tsipras. In Gran Bretagna con l’Ukip affermatosi come primo partito alle europee del maggio 2014. In Polonia con l’ascesa al potere nell’ottobre di quest’anno del partito Diritto e Giustizia. In Francia con la grande avanzata nemmeno due settimane fa del Front National di Marine Le Pen. Ieri è stato il turno della Spagna. Dove il “terzo polo” antisistema si è già talmente radicato da presentare una variante di sinistra antagonista (Podemos) e una di destra liberale (Ciudadanos). Insomma, le democrazie europee stanno cambiando pelle in modo strutturale e gridare al lupo populista, come si è fatto sino ad ora, non serve a molto, se il problema è capire cosa sta accadendo e perché.

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 21 dicembre 2015.

 

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