di Alessandro Campi

Schermata-2015-01-12-alle-14.11.53L’immagine di capi di Stato e di governo che ieri marciavano, uno accanto all’altro, per esprimere solidarietà all’intera Francia e per rigettare la violenza del terrorismo islamista è di quelle destinate a restare, se non nella storia, certamente nella nostra memoria per lungo tempo. Faceva in effetti una certa impressione vedere così tanti potenti avanzare lungo le strade della capitale francese sulla base di un protocollo abbastanza improvvisato, tra misure di protezione inevitabilmente imponenti.

C’erano tutti i più importanti leader europei, ma c’erano anche il re di Giordania, il primo ministro della Turchia, il primo ministro d’Israele e quello palestinese, numerosi governanti dall’Africa, i vertici dell’Europa e delle principali organizzazioni internazionali. La loro breve sfilata si è svolta, per chi l’abbia seguita con attenzione, in una condizione quasi irreale, stando fisicamente lontani dal resto dei partecipanti, seguendo un percorso rimasto segreto sino all’ultimo momento: c’era commozione, ma anche un’evidente preoccupazione sui loro volti. La risposta ai terroristi è stata ferma, pubblica e corale, ma si percepisce, al di là delle rassicurazioni d’obbligo, che qualcosa è irreversibilmente cambiato nel modo di percepire la sicurezza all’interno delle nostre società.

Hollande, un presidente che era giunto al minimo del gradimento tra i suoi cittadini prima degli attentati che hanno scosso il Paese, ha voluto quest’appuntamento – indubbiamente di grande impatto emotivo e mediatico – per mandare un doveroso segnale di unità in un momento di grande smarrimento collettivo e forse anche per riscattare se stesso dalle cadute di stile del recente passato. Bisognava rapidamente scacciare la paura dall’interno del Paese, ma anche far capire che il problema della violenza jihadista non riguarda solo la Francia e nemmeno soltanto l’area euro-occidentale, ma l’intero mondo islamico. E che solo uno sforzo comune e ben coordinato può contribuire a sconfiggerla. Proprio la presenza dei capi politici di alcuni grandi Paesi musulmani ha rappresentato il fattore forse politicamente più rilevante dell’incontro: è parsa la conferma plastica della differenza netta che esiste tra fede islamica e ideologia islamista, tra i diversi Islam nazionali e chi vagheggia l’istituzione su scala universale del califfato.

Ieri è stato il momento dei simboli, delle suggestioni, delle grandi emozioni collettive, del cordoglio di massa, della protesta civile, dell’inevitabile retorica. La razionalità politica non basta da sola a tenere unita una comunità composta da milioni di persone. Anche nella Francia laica e repubblicana, patria del pensiero geometrico e cartesiano, ci si è dovuti affidare, dinnanzi al rischio di una crescente divisione interna, ad un grande rituale di massa – le bandiere, i cori, gli slogan più o meno fantasiosi, i simboli religiosi in teoria banditi dalla vita pubblica, le candele accese durante la marcia, i canti – per esorcizzare i timori e affermare la propria comune appartenenza ad una civiltà politica che crede, hanno gridato in quasi due milioni, innanzitutto nel valore della libertà.

Ma l’imponenza della manifestazione, svoltasi in un clima persino giocoso e tranquillo, il cui effetto è stato certamente liberatorio dopo il senso d’oppressione degli ultimi giorni, non deve far dimenticare la gravità dei problemi che quegli stessi capi di Stato e di governo (e i loro cittadini nelle diverse parti del mondo) si troveranno ad affrontare già da domani.

A partire proprio da Hollande. C’erano ieri tantissimi francesi in piazza, ma non tutti i francesi. Politicamente e simbolicamente ne mancava un quarto: quello che vota per il Fronte nazionale e che non è stato incluso – visto il mancato invito a Marine Le Pen – nella giornata dell’orgoglio repubblicano. Un errore forse dettato da una preoccupazione elettorale in vista delle prossime presidenziali, ma che non si dovrebbe replicare su scala europea. La politica ufficiale fa bene a denunciare il rischio dell’islamofobia, ma sbaglia ad escludere dal consorzio politico – bollandoli semplicemente come razzisti o facinorosi – quei cittadini che, nei diversi Stati del continente, hanno l’unica colpa di vivere con angoscia l’attuale fase storica e di non trovare risposta alle loro preoccupazioni se non nelle parole dei demagoghi. E’ paradossale predicare l’inclusione del diverso e dello straniero ed escludere i propri connazionali dallo spazio della rispettabilità politica. Se migliaia di ebrei stanno abbandonando la Francia per paura o perché temono per la propria vita la colpa non è del populismo lepenista.

Ma il vero problema che tutti hanno, avendo finalmente compreso la gravità della minaccia e dopo aver dichiarato di non volerla subire, è con quali mezzi affrontarla. Va bene richiamarsi al valore sacro della libertà, ma come difenderla concretamente? Va bene rifiutare la prospettiva di uno scontro di civiltà o di una guerra di religione, ma non si può negare l’evidenza: esiste una lettura politico-ideologica dell’Islam che si traduce nell’uso della violenza e in un disegno di conquista che è necessario contrastare con tutti i mezzi. Come si è disposti a farlo?

Per questo obiettivo non bastano sfilate, pronunciamenti o manifestazioni di piazza. Servono accordi di collaborazione, scambi di informazioni, uomini e mezzi, sistemi di alleanza. Soprattutto serve una strategia condivisa: esattamente ciò che l’Europa, in particolare, ha dimostrato di non possedere, avendo peraltro sottovalutato molti dei segnali che nell’ultimo anno indicavano chiaramente il salto di qualità fatto dal terrorismo di matrice islamica. Proprio di questo si parlerà a metà febbraio negli Stati Uniti, quando si riuniranno tutti i responsabili della sicurezza dei Paesi impegni contro il fondamentalismo islamista. Sarà quello l’appuntamento decisivo dal punto di vista politico. La vicenda francese ha fatto capire che bastano ormai piccole falangi di esaltati per mettere sotto scacco una nazione. Non c’è da temere solo gli attentati spettacolari e lungamente pianificati, ma anche incursioni veloci ed episodi di guerriglia urbana. Globale e coordinato è l’attacco jihadista, globale e unitaria deve essere la risposta nei suoi confronti.

* Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) e su “Il Mattino” (Napoli) del 12 gennaio 2015.

 

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