di Alia K. Nardini
Il dibattito del 22 ottobre alla Lynn University, Florida, ha rappresentato l’ultima occasione in cui i candidati alla presidenza degli Stati Uniti sono apparsi insieme davanti agli elettori. Ora entrambe proseguiranno la propria campagna elettorale separatamente, a ritmi sempre più serrati, fino al voto del 6 novembre. A qualche giorno dall’appuntamento di Boca Raton, nel quale si sono approfonditi quasi esclusivamente temi di politica estera, è opportuno avanzare qualche riflessione riguardo alla direzione nella quale la sfida per la Casa Bianca sta procedendo oggi.
In primo luogo, appare evidente che da quel lontano 2 giugno 2011, data nella quale Mitt Romney annunciò formalmente la propria volontà di ricandidarsi alla presidenza del paese – aveva già corso per le primarie del Partito Repubblicano nel 2008, quando poi prevalse John McCain – l’ex Governatore del Massachusetts ha fatto parecchia strada. È scomparso il manager freddo e calcolatore, competente ma decisamente poco emozionante, incapace di entusiasmare il partito e di creare un contatto con la gente comune. Mantenendo la propria autorevolezza mentre elenca con precisione nomi e cifre riguardo ai temi più disparati, oggi Romney sa anche rivolgersi all’elettore medio, sa creare empatia mentre annuncia con passione le proprie proposte per il futuro dell’America. Opera una cesura netta con l’era Bush, proponendosi come autorevole commander in chief, ma sostenendo che ciò che gli Stati Uniti intendono perseguire oggi è la pace nel mondo. L’America, afferma Romney in un accorato appello alla nazione, non ha chiesto la grande responsabilità di promuovere la pace: ma ha avuto questo onore, insieme al privilegio di difendere la libertà e i diritti umani nel mondo – ed ora è chiamata a fare del proprio meglio. Per questo gli Usa devono non solo avere un esercito forte, ma anche un’economia sana, e mantenere salda la fede nei principi di libertà e giustizia che da sempre muovono il paese.
Barack Obama, decisamente ripresosi dai tentennamenti e dalla stanchezza che avevano caratterizzato le sue ultime apparizioni, si è mostrato brillante ed energico: competente e carismatico, il Presidente ha ritrovato l’ottimismo e la grinta che quattro anni fa gli avevano spalancato le porte della Casa Bianca. Evidenzia ripetutamente le molte contraddizioni nel passato politico di Romney (la posizione ambivalente sul ritiro dall’Iraq, così come sui trattati di cooperazione con la Russia); definisce Israele “un vero amico e il nostro più grande alleato nella regione mediorientale”; si propone di assistere le minoranze oppresse e le donne in difficoltà nei paesi arabi; e si impegna ad aiutare le nazioni più povere a crescere economicamente. Allo stesso tempo, ribadisce l’impossibilità di operare attraverso logiche tradizionali (vale a dire neoconservatrici) di nation building: secondo Obama, la leadership americana trova la sua più piena e propria espressione nelle politiche nazionali, per poi riflettersi oltreconfine (la politica estera è dunque un’estensione di quella condotta in patria, e non viceversa).
Romney replica sostenendo che la politica estera statunitense necessita di una strategia più comprensiva di quella proposta dalla corrente Amministrazione. La primavera araba non ha portato la tanto sperata democratizzazione in Medio Oriente, e nonostante il plauso tributato al Presidente in carica per aver scovato Osama Bin Laden ed aver dato la caccia ad Al Qaeda, la tattica degli USA non può semplicemente essere quella di seguitare ad uccidere terroristi. L’ex Governatore del Massachusetts critica Obama riguardo alla politica condotta in Siria: seppur il Presidente degli Stati Uniti abbia più volte ripetuto che “Assad se ne deve andare”, la situazione a Damasco non dà segni di miglioramento. Sebbene cerchi di persuadere gli americani di aver già fatto molto in termini di sanzioni ed azioni multilaterali con il plauso della comunità internazionale, Obama manca di comprendere come la questione siriana non vada letta solo come tragico disastro umanitario, ma anche in termini strategici: è necessario bloccare il flusso di armi che attraverso territorio siriano raggiungono Hezbollah e il Libano, e sventare quella che rappresenta una minaccia non solo per Israele, ma anche per la sicurezza dei sauditi e di Ankara. Pur restando inamovibile riguardo alla possibilità di inviare truppe (Romney afferma che l’America non debba impegnarsi direttamente su suolo siriano), l’ex Governatore propone di sostenere i ribelli e le altre forze democratiche nella regione, affinché cresca sempre più la responsabilizzazione per la sicurezza in Medio Oriente a livello locale. Romney qualifica inoltre la Russia come “nemico geopolitico”, lamentando l’abbandono del progetto di difesa missilistica su suolo europeo; e ribadisce la linea dura con Pechino, promettendo che dal primo giorno di una sua eventuale presidenza la Cina verrà dichiarata una currency manipulator, una nazione che tiene artificialmente basso il valore della propria valuta e non gioca secondo le regole universali del buon commercio. “Vogliamo collaborare con la Cina”, dichiara, “ma buone relazioni commerciali non possono significare la perdita di posti di lavoro per gli americani”.
Obama attacca gli ambiziosi progetti del candidato Repubblicano: dagli investimenti per la sicurezza nazionale all’aumento dei finanziamenti alla difesa, Romney avrà problemi nel reperimento dei fondi, e sarà chiamato a rivedere i propri progetti. Ai toni duri contro Teheran, il Presidente affianca la consapevolezza dell’urgenza della minaccia nucleare; l’America sarà a fianco di Israele se verrà attaccato dall’Iran, promette, ma l’azione militare deve sempre e comunque costituire l’ultima spiaggia, e non un’“opzione prematura”, come invece è solitamente per i Repubblicani. Inoltre, secondo Obama, disporre di meno armamenti non significa necessariamente avere un contingente militare più debole. “Abbiamo anche meno cavalli e baionette che in passato, ma questo è perché è cambiata la natura stessa della nostra difesa militare”, chiosa astuto il commander in chief. Intelligence e nuove tecnologie, per la sicurezza degli Stati Uniti e del mondo, devono unirsi ad una sempre maggiore responsabilità del paese nell’occuparsi delle truppe, non solo in termini di preparazione, ma anche dopo il loro rientro (e qui Obama strizza l’occhio ai reduci e ai veterani di guerra). Sono queste le nuove sfide militari dell’America, conclude il Presidente: “le sfide di questo nuovo millennio non si riducono a un mero scacchiere di battaglia navale”.
Seppure sia difficile decretare un vincitore in quest’ultimo dibattito – Romney ha fatto meglio nella parte iniziale, Obama ha brillato in quella conclusiva – uno sguardo alla mappa elettorale degli USA può fornire ulteriori informazioni. Sono nove gli stati dei quali è estremamente difficile dichiarare l’orientamento politico, che vengono definiti swing states (stati “pendolo”), oppure battleground states (campi di battaglia): Colorado, Florida, Iowa, Nevada, New Hampshire, Ohio, Virginia, Wisconsin e Michigan (alcuni analisti citano invece la Pennsylvania o la North Carolina). Per l’ex Governatore del Massachusetts, la strada è tutta in salita. Romney deve conquistare almeno Florida e Ohio, più un terzo stato aggiuntivo, per poter mettere seriamente in difficoltà Obama; ma se nel sunshine state Romney sembra avere un certo vantaggio, più difficile è prevedere cosa accadrà in Ohio. Se invece Obama si aggiudicasse anche solo i 29 seggi della Florida, o i 18 dell’Ohio, Romney dovrebbe vincere in tutti i restanti swing states per restare competitivo – uno scenario altamente improbabile. Obama potrebbe invece perderli entrambe, e aggiudicarsi la rielezione vincendo in Iowa, New Hampshire, Wisconsin e Colorado.
In conclusione, per quanto i programmi elettorali, i sondaggi sulle preferenze e i risultati conseguiti nei dibattiti elettorali abbiano certamente il loro peso, sono i seggi – i cosiddetti ECV, ovvero gli electoral college votes che ogni stato porta in dote, a dare il quadro più accurato di come stiano andando le presidenziali negli Stati Uniti oggi. E i numeri danno sempre Obama in vantaggio, con valori diversi, ma una stessa costante: molti, e molto differenti tra loro, sono gli stati “indecisi” in cui Romney dovrebbe vincere per aggiudicarsi la presidenza. Obama invece può contare su uno zoccolo duro di preferenze, una mappa di stati fedelissimi distribuiti lungo le due fasce costiere, che – se non per un clamoroso colpo di scena – quasi certamente decreteranno la sua rielezione.