di Alessandro Campi*
Ora che il governo Monti si è felicemente (per così dire) insediato, sostenuto da una base parlamentare talmente solida come capita solo nei tempi di guerra, ci sono alcune domande che dobbiamo porci, rispondendo alle quali forse riusciremo a meglio immaginare il futuro che ci aspetta.
La prima questione suona all’incirca così: come abbiamo fatto a ridurci in questo stato? Si dirà, colpa di una devastante crisi economica, che il governo in carica non ha saputo affrontare e che ha costretto il Presidente della Repubblica a forzare le regole e a inventarsi un esecutivo di emergenza composto esclusivamente da tecnici. Ma non è tutta la verità. La sfascio dei conti pubblici e gli attacchi speculativi contro il debito sovrano dell’Italia non debbono farci dimenticare che l’Italia da almeno vent’anni naviga in acque agitate ed è alla prese con una non meno devastante crisi istituzionale.
Distrutto un sistema politico, non siamo stati in grado di costruirne un altro in grado di funzionare secondo le esigenze e le aspettative del Paese. Liquidata una classe politica, non abbiamo avuto la forza e la capacità di sostituirla con una che fosse, rispetto alla precedente, più efficiente e meno corrotta. Messi in soffitta i partiti politici di massa che, bene o male, avevano consentito gli italiani di accrescere il loro benessere e di partecipare attivamente alla vita pubblica, li abbiamo surrogati con sigle evanescenti e aggregazioni informali controllate da ristrette oligarchie o da singole personalità. Se la politica prima era passione e militanza, oggi è tifo da stadio e rissa. Se prima c’erano le ideologie, che talvolta funzionavano come gabbie del pensiero ma almeno davano un senso all’azione politica, oggi quest’ultima si fonda sul vuoto delle idee e sull’affarismo.
Insomma, la Seconda Repubblica tanto attesa ed invocata si è rivelata un clamoroso fallimento. La prima fu abbattuta da un’ondata di risentimento antipolitico che spianò la strada ai primi governi tecnici della storia italiana, grazie ai quali – da Amato e Ciampi – ci salvammo dal disastro e riuscimmo a restare agganciati alla scialuppa europea. Dopo due decenni, dopo polemiche infinite e un colossale spreco di risorse e speranze, siamo tornati al punto di partenza, con la gente che impreca nuovamente contro la classe politica, con un gruppo di tecnocrati chiamati nuovamente a guidare il Paese e con l’Europa che nuovamente ci fa da tutore e da bussola.
Se in quest’arco di tempo avessimo costruito istituzioni politiche più solide e regole del gioco per davvero condivise, se non avessimo perso il nostro tempo a litigare su Berlusconi e a polemizzare ora sui giudici comunisti ora sul ritorno al potere del fascismo, forse avremmo potuto affrontare le attuali difficoltà economiche con più serietà e rigore. Soprattutto avremmo impedito lo spettacolo di una classe politica e di un Parlamento ridottisi ad applaudire giocoforza un tranquillo professore che in altre condizioni avrebbe continuato a fare il suo mestiere all’università o nei consessi internazionali di cui è membro.
L’altra domanda che viene di conseguenza è la seguente: come uscire da una simile situazione? Basta andare al voto, non appena l’emergenza sarà finita, e subito torneremo alla normalità. Ma si tratta di una falsa ricetta. Il ricorso alle urne farà forse nascere un governo legittimo e sancirà la fine del regime commissariale nel quale oggi ci troviamo. Ma lascerà intatti, ecco il punto, i nostri problemi di fondo. Davvero si pensa che qualche mese di decantazione, senza più risse nelle aule parlamentari e insulti nei talk show, possa contribuire a incivilire la lotta politica tra opposti schieramenti? Il rischio, reale, è che invece tutti ricominci come prima, col solito muro contro muto tra fazioni.
Quanto ai partiti che ci hanno condotto all’attuale disastro, riusciranno ad infonderci una rinnovata fiducia solo perché nel frattempo si sono sottoposti al bagno purificatore di un governo che li ha estromessi dalla guida della cosa pubblica e li ha umiliati agli occhi degli italiani? Non è più facile prevedere che, una volta ripreso il potere nelle loro mani grazie agli elettori, torneranno ad essere irrisoluti e predatori come sono stati nel recente passato, quel nulla culturale e organizzativo che abbiamo visto all’opera in questi anni?
Il voto popolare è fondamentale in democrazia, ma nel caso di quella italiana, lacerata e mal funzionante ormai da tempo, difficilmente potrà rappresentare una soluzione ai nostri malanni. C’è prima da ricostruire un tessuto di relazioni tra le forze politiche improntato alla reciproca legittimazione, da mettere mano ad una seria riforma del nostro ordinamento costituzionale, da smetterla con lo spirito di divisione e con i pretestuosi antagonismi ideologici che ci hanno sin qui avvelenato, da operare un serio ricambio dei nostri gruppi dirigenti aprendo le porte a nuove energie.
Insomma, oltre a mettere i conti a posto e a salvare l’economia italiana dal fallimento, ci aspetta – se davvero vogliamo tornare ad una condizione di relativa normalità – un lavoro di paziente ricostruzione del nostro tessuto civile e politico. Non si sa, al momento, quanto durerà il governo Monti: forse sei mesi, forse un anno e mezzo. In ogni caso, il tempo che esso ha di fronte e che lo vedrà impegnato in un duro lavoro sul fronte economico-sociale, dovrebbe servire alle forze politiche – tutte, di destra e di sinistra – per resettare il loro abituale modo di fare, per darsi un nuovo personale e nuovi orizzonti strategici, per trovare il modo di riconquistarsi (oltre il consenso) anche la fiducia e il rispetto dei cittadini.
In particolare, dovrebbe servire loro per realizzare un profondo esame di coscienza, per riflettere sugli errori che hanno commesso con l’idea di evitarli nel futuro. Nelle attuali condizioni, infatti, non siamo precipitati solo a causa degli speculatori di borsa o per colpa di un destino cinico e baro, ma con le nostre sole gambe, avendo malamente e irresponsabilmente sprecato un ventennio della nostra storia.
* Direttore dell’Istituto di Politica e della “Rivista di Politica”