di Luca Marfé
NEW YORK – Donald Trump, anno 3, giorno 1.
Sono trascorsi 2 anni esatti da quell’Inauguration Day del 20 gennaio 2016 che, per svariati versi, è destinato ad entrare nella storia degli Stati Uniti.
Un giuramento cupo ma orgoglioso, impopolare ma fiero, addirittura osteggiato ma ancora vivo.
I temi sono molteplici, eppure a queste latitudini l’ideologia cede quasi sempre il passo all’economia.
Ed è proprio sui numeri di crescita, occupazione e borsa che sono puntati gli occhi non soltanto di tutti gli americani,
di Luca Marfé

NEW YORK – Donald Trump, anno 3, giorno 1.

Sono trascorsi 2 anni esatti da quell’Inauguration Day del 20 gennaio 2016 che, per svariati versi, è destinato ad entrare nella storia degli Stati Uniti.

Un giuramento cupo ma orgoglioso, impopolare ma fiero, addirittura osteggiato ma ancora vivo.

I temi sono molteplici, eppure a queste latitudini l’ideologia cede quasi sempre il passo all’economia.

Ed è proprio sui numeri di crescita, occupazione e borsa che sono puntati gli occhi non soltanto di tutti gli americani, ma altresì del mondo intero. Perché del resto, come teorizzato e stringato in maniera perfetta dal professor Nouriel Roubini, «quando l’America starnutisce, il resto del mondo prende il raffreddore».

E allora eccoli questi numeri.

L’economia va, vola.

Nonostante il trentesimo giorno consecutivo di shutdown e le relative ripercussioni destinate a frenare la corsa di gennaio, il prodotto interno lordo ha sforato la soglia dei 20 milioni di miliardi di dollari statunitensi. Una cifra mostruosa, oggettivamente difficile anche soltanto da mettere in fila, accompagnata da percentuali di crescita che nel 2018 hanno oscillato attorno ai tre punti e mezzo / quattro punti.

Le stime di Bankitalia su Roma e dintorni, tanto per intenderci, parlano di uno 0,6% che potrebbe degenerare addirittura in recessione. La gigantesca Cina si muove sotto la soglia del 7%, ma è un Paese in via di Sviluppo, protagonista di una fase storica completamente diversa.

Insomma, gli Usa ci sono.

Motivati, peraltro, da una disoccupazione che, di fatto, non esiste più. Meno del 4%: una soglia che gli studiosi considerano  “naturale” o “fisiologica”. Con il lavoro irrobustito a sua volta dal recupero dei salari (+3,2%, dati del 12 gennaio 2019).

Resta la borsa, con i suoi alti e bassi ordinari accanto a quelli legati agli scossoni politici. In particolare, è la guerra dei dazi con la Cina a tenere banco. Trump e Xi si sono concessi una tregua fino alla primavera, ma la nuova scadenza è praticamente già dietro l’angolo.

Analisti ed agenti di Wall Street tremano, ma il pugno duro del tycoon potrebbe anche pagare, costringendo, da un lato, il dragone ad adeguarsi al rispetto della proprietà intellettuale e, dall’altro, le aziende a stelle e strisce (Apple su tutte) a ridimensionare il fenomeno delle delocalizzazioni.

L’unica certezza è il macigno del debito pubblico che, complice il taglio delle tasse, l’aumento delle spese militari ed il progressivo rialzo dei tassi di interesse, non soltanto non accenna a diminuire, ma si arrampica fino a picchi ulteriori e vertiginosi, persino per il primo colosso mondiale: 800 miliardi che potrebbero presto diventare mille.

Una cifra che fa spavento e che, da sola, dopo quello del 2008, potrebbe rivelarsi la causa di un nuovo collasso.

Trump getta dunque benzina sul fuoco di un’economia accelerata.

Quest’anno gli toccherà dimostrare di essere abile al punto da non esaurirla.

E soprattutto da non scottarsi.

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