di Vittorio Pessini

Nikos Kazantzakis (1883-1957), probabilmente il più importante scrittore greco dell’età moderna, è una figura dalle mille sfaccettature: nel suo sterminato corpus letterario compaiono romanzi, poesie, diari di viaggio, opere filosofiche, che mancano ancora di un’analisi critica unitaria e in molti casi persino di traduzioni. Lo scorso anno l’editoria italiana ha colmato, in parte, questa lacuna, con la riproposizione di due tra i suoi romanzi più conosciuti – se non altro per merito delle rispettive trasposizioni cinematografiche: Zorba il greco e La seconda crocifissione di Cristo.

Quest’ultimo prende le mosse dalla tradizione religiosa di un piccolo villaggio del’Asia Minore abitato da cristiani ortodossi e governato dall’agà turco, dove ogni sette anni viene messo in scena il dramma della Passione di Cristo. Le cose, però, non vanno nella direzione sperata dalle autorità e dai benestanti del villaggio, perché le persone da loro scelte per rappresentare il messaggio evangelico oltrepassano le barriere della finzione trasformandosi negli stessi personaggi interpretati, imitandone i gesti e le azioni e finendo per subirne le medesime violenze. Si sviluppa qui uno dei temi cari alla narrativa dello scrittore greco, quello della riflessione sulla deformazione che assume un potere, sia esso di natura politica o spirituale, nel momento in cui si trasforma in un mero strumento di coercizione, di dominio e di autoconservazione: questa insistenza nasce dal vissuto dello stesso Kazantzakis, costretto contemporaneamente a vivere in un Paese soggiogato territorialmente, in larga parte, al dominio dell’Impero Ottomano, e a subire l’incomprensione dell’autorità religiosa ortodossa – che si manifestò attraverso alcuni gesti clamorosi, come l’inserimento de L’ultima tentazione di Cristo nell’Indice dei Libri Proibiti o il rifiuto, dopo la morte, di esporre la sua salma ad Atene.

Il tentativo dei novelli discepoli di dare accoglienza a un gruppo di emigrati scacciati dalle loro terre di origine si scontra contro l’indifferenza dell’autorità politica locale e l’aperto ostracismo di quella religiosa, contro due poteri che si sentono minacciati, come sempre in ogni epoca e in ogni luogo, da un messaggio di fratellanza capace di attraversare le barriere spazio-temporali mantenendo intatta la propria carica rivoluzionaria.

Attorno ai protagonisti viene costruita una fitta rete di menzogne, di bugie, di delazioni, che scatena una violenza priva di ogni umanità il cui unico scopo è quello di calpestare la verità e di estirpare la radice di un germe – quello dell’uguaglianza – ai loro occhi infetto, che rischia di alterare l’ordine precostituito.

Ma tra il volto che assume l’egoismo e quello attraverso il quale si manifesta la fratellanza non esiste una dicotomia totale: come la violenza non assume necessariamente un aspetto demoniaco, ma spesso si nasconde dietro ad abiti sacri o nasce da atteggiamenti di oziosa apatia, così la carità può celare dietro a se stessa colpe precedenti e non ricusa neppure l’utilizzo della stessa violenza – seppur rivolta a un fine diverso – per ottenere i suoi scopi.

Kazantzakis non vuole relativizzare la distinzione tra bene e male, che rimane netta e fa torcere al lettore le viscere di fronte alle descrizioni delle empietà che vengono commesse ai danni dei perseguitati. Questa distinzione, tuttavia, non è ai suoi occhi sufficiente: egli vuole indicare all’uomo quella via che tende a un assoluto libero dalla materia, che si può manifestare solo come puro spirito e che per questo non può appartenere alla natura umana, imperfetta e soggetta al dominio delle proprie passioni, della propria pulsione, della propria carne. Questa tensione viene rappresentata monocromaticamente nella figura del novello Cristo, apparentemente la meno riuscita da un punto di vista letterario se confrontata con la policromia psicologica degli altri personaggi. Egli, calpestato dai suoi aguzzini e spesso incompreso dai suoi stessi compagni, è pura luce che indica una strada preclusa a ogni essere umano ma non per questo meno degna di essere seguita e imitata, pur nella consapevolezza di non poterla mai percorrere pienamente. Il suo sacrificio non modifica il corso degli eventi, perché il suo cammino non è parallelo a quello dell’uomo, si muove su un livello differente e le due strade non sono destinate a incrociarsi. La giustificazione di questo sacrificio è nel sacrificio stesso, puro atto di amore che, anche solo per il breve tempo di lettura del romanzo, permette al lettore di elevarsi verso una dimensione sconosciuta e di intravedere un assoluto privo di ogni dogmatismo, emblema di una libertà che solo nella morte, e forse nella resurrezione, trova il suo compimento perfetto.

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