di Danilo Breschi
L’America piange, il mondo piange, dopo la strage in una scuola elementare a Newtown, in Connecticut, dove 26 persone, tra cui 20 bambini, sono state uccise. L’assassino, Adam Lanza, di vent’anni, ha fatto irruzione nella scuola. Ha usato le armi della madre, insegnante in quella stessa scuola, uccisa poco prima in casa, e ha aperto il fuoco. “Sono state colpite più volte”, ha dichiarato il medico legale che ha visto i corpi. Sembra che l’artefice dell’eccidio avesse avuto un “alterco” con quattro dipendenti della scuola elementare Sandy Hook di Newtown giovedì, il giorno prima di andare lì e massacrare, fra l’altro, 20 bambini di età compresa fra i 6 e i 7 anni. E qui un nodo scorsoio si stringe alla gola, e anche solo due parole di circostanza faticano ad uscir fuori, comprensibili. La polizia ha confermato che l’assassino ha aperto il fuoco in due aule della scuola. In tutto, raccontano i testimoni, sono stati esplosi almeno 100 colpi. L’assassino, consumato il massacro, si è tolto la vita.
Sono questi i casi in cui è spesso la poesia, o un pensiero espresso poeticamente, l’unica forma con cui trovo il modo per articolare ciò che di più oscuro si annida nel cuore dell’uomo. Sia chiaro a chi non mastica versi veri: metter poesia non vuol certo dire né edulcorare né rassicurare, ma solo toccare vette e abissi, tutti gli estremi, asfissianti, dell’umano. E così mi tornano in mente tante pagine del solitario di Cetona, borgo silente che sorge su una collina della provincia senese. Sto parlando di Guido Ceronetti, il poeta-filosofo-drammaturgo-traduttore-teatrante-marionettista che molti hanno avuto modo di conoscere e apprezzare quale collaboratore sempre acuto, sempre spiazzante, del quotidiano “La Stampa” di Torino, di cui è da quarant’anni esatti una delle firme più illustri e meno scontate. Una delle più discusse, come quando intervistò Priebke, e molti fraintesero, non cogliendo la cifra dello scrittore-filosofo che è chiamato, come Ulisse dalle Sirene, a interpellare il male che reclama incessantemente l’ascolto per ciò che di inaudito compie. Male che sa truccarsi di piacere, per sedurre, e corrompere. Rimuovere il male dalla propria vista, dal proprio udito, pensando così di eliminarlo, può essere l’illusione più pericolosa, più controproducente.
Ceronetti è pertanto un anticonformista vero, utile per questo suo bordeggiare il nichilismo, talvolta sull’orlo del gioco estetico, com’è vizio e vezzo di ogni vero artista, sempre in bilico, sempre sul punto di cadervi, in quel baratro senza fondo chiamato “il male”, e mai l’ha fatto, ancora non l’ha fatto, ottantacinquenne. Perché Ceronetti pensa e tratta da sempre l’umano per quel di cui esso è fatto, da cui è scaturito: sogni? No, fango e creta.
Quel male assoluto che frantuma ogni teodicea, anche la più affilata nella dottrina, la più sofistica nelle argomentazioni, e getta a terra la ragione che, stremata, ricorda che un bene da qualche parte lo aveva pure avvertito, lo aveva come sfiorato, un giorno immemorabile. Quel male su cui da sempre si interroga la poesia, la scrittura che tocca le corde più sonore e quelle più sorde dell’animo umano, da Eschilo a Dostoevskij a Primo Levi… Se questo è un uomo, appunto. I martoriati e i martirizzati, ma anche i carnefici: deiezioni dell’umano, ben oltre l’essere e il tempo.
Ma proprio quando il nodo si stringe, prossimo ad asfissiarci di dolore, proprio allora dobbiamo strapparci un grido dal petto, e incanalarlo nella ragione che, sola, può allontanarci da una condizione di bestia disumana, di crudeltà che nemmeno animale si può denominare, perché l’istinto di annientamento solo in noi umani ha trovato e trova sempre esecutori spietatamente devoti. Dobbiamo reagire all’afasia di cuore e ragione che simili tragedie iniettano in noi come virus letale.
Riapro così molte pagine ceronettiane e, con dentro l’eco degli spari nella scuola di Newtown, mi viene da pensare che non siamo che dolore, miseria, abiezione subìta e inflitta, e speranza che almeno ci spunti un germoglio d’ali per innalzarci ad attingere barlumi di luce pura, qualcosa che ci disseti per una notte, qualcosa che ci strappi dalle tenebre che albergano in noi, che noi alberghiamo, ora in stanze nascoste ora in camere di lusso. Angeli e demoni, più demoni che angeli, questa umana gente cantata, talora suonata, con organo di Barberia, dal teatro di strada portato di città in città da Guido Ceronetti, or son quasi quarant’anni. C’è da tremare nel considerare quanto dolente sia questa condizione di donne e uomini, ora vittime ora carnefici, di sé e degli altri, in un rovesciarsi di ruoli e posizioni che rende simile ad un’orgia triste certe visioni di abomini, fra stupri, stragi, bombardamenti a tappeto, attacchi kamikaze e sempre vittime innocenti, inermi, sorprese e snudate nella loro dignità di esseri umani.
Hieronymus Bosch è perciò pittore amato quanto mai da Ceronetti, perché è il più realista tra i visionari, il più visionario tra i realisti, e tutto ciò grazie solo al fatto che indaga e scava nella carne umile e umiliata del maschio e della femmina, giovane-vecchio, vecchia-giovane, poco importa. I quadri di Bosch sono affreschi di giudizio finale dove l’uomo ora si rintana ora sguscia via da uova primordiali e ossibuchi vellutati. Giudizio ribadito da Ceronetti nel florilegio di sferzanti aforismi usciti nel 2009 col titolo di “Insetti senza frontiere”: «Sì, Hieronymus – lui vedeva, lui vide giusto, vide che cosa siamo e diventiamo. […] Via dall’uomo, via!».
Apro un altro testo ceronettiano: “Le ballate dell’angelo ferito”, sempre del 2009, raccolta di poesie in cui trova conferma una coeva autodichiarazione di Ceronetti come poeta: “Nel verso certamente io sono stato filosofo” (“Insetti senza frontiere”, aforisma 193). E, leggendo, mi dico che vittima altrui, solo altrui e basta, è unicamente la condizione dell’infanzia, è il bambino-bambina, la creatura di cui si è fatto scempio nel Connecticut come nella scuola di Beslan, il primo, due e tre settembre del 2004 nell’Ossezia del Nord. “L’abbrutimento, l’annientamento / Qui si persegue della creatura”, così recita la poesia “Primo giorno di scuola a Beslan”. Lì, centottantasei fanciulli falcidiati dopo essere stati ostaggi per tre giorni di un orrore che già Conrad scopriva nel 1902 asserragliato, incistato nel cuore di tenebra che d’umano ha il nome. Solo il nome, verrebbe da dire, se non avessimo mai letto Ceronetti. Perché frequentando la sua pagina sorge ricorrente il dubbio che umano non sia sinonimo di niente di buono, non prometta nient’altro che minaccia alla pace, alla vita, degli altri e della natura, anche di quest’ultima che pure non risparmia nessuno di fronte al suo dispiegarsi “naturale”. Ma resta, su tutti e tutto, un imputato più indiziato di altri: “che il vero male per l’uomo non è quello che soffre, ma quello che fa”, ricordava un sapiente monito di Manzoni posto da Ceronetti più di trent’anni fa in esergo ad un suo chirurgico zibaldone, “Il silenzio del corpo” (1979).
Il senso del tragico e la pietas sono in Ceronetti antidoto potente contro l’illusione che tutto sia scritto nel cielo, alibi per giustificare l’orrore o rassegnarsi al sopruso, alla disumanità del più forte, del più bieco. Canta dolente il poeta i bambini ebrei spinti ad imbottire i treni per Treblinka, dove ad attenderli fumavano già camere a gas: “Cantando tutti insieme sono entrati / Là dove i tubi li hanno asfissiati”. Mai arrendersi, però, nemmeno di fronte all’abominio compiuto; che la poesia almeno tenga viva lo sdegno, l’accusa, la memoria dello scempio e dia forza ai cuori dei “salvati”: “Le voci spente non scoloriranno, / Vergogna eterna su chi ai binari / Sanguinosi li ha radunati […]” (“Umschlagplatz”, sempre da “Le ballate dell’angelo ferito”).
Alberga in Ceronetti la nostalgia di un vigoroso, virile pugnare per una Causa, un ideale, un dare cuore ai gesti, un sostanziare sogni di destini tragici consumati in singolar o coral tenzoni di cavalieri che furono, di donchisciotteschi eroi che dovrebbero esserci ancora: «Cadrò all’Isonzo con Dante nel costato, / E mi sento il ben vissi in ogni fibra / Sapendo che la vita e la sventura / Non può guarirle che una eroica fine / In una prova inutile e infinita / Dell’essenza virile» (“Con l’armata dell’Ebro morire oggi”). Ecco qui spiegato cos’è il tono “civile” di una scrittura, poetica o prosastica che sia, e di qualsiasi arte proteiforme, attributi di Ceronetti ed altri degni tutori delle Muse. Ma chi è dunque il cantato di ciascuna ballata di questo canzoniere sanguigno e terragno? L’angelo.
L’angelo è “una realtà”, come ci dice Ceronetti, “non un ente immaginario” e se lo dichiara “ferito” è perché “le sue lacrime sono vere lacrime”. L’angelo lo si incontra per strada, ogni volta che evade da quelle prigioni che chiamiamo “case” (“La galera non è una casa. È la casa – ogni casa – che è una galera”: “Insetti senza frontiere”, aforisma 69), ogni volta che lo sguardo nostro si fa pietoso e assetato di luce. Una sete destinata a restare inestinguibile, perché di luce poca ne troveremo, mentre di tenebre sempre in quantità industriale avremo scorte. Dunque, l’angelo non può che essere ferito, non può che gemere per il suo bianco insozzato di sangue e sudore. Perché, ogni tanto, da quelle case-prigioni esce un demone, prende l’auto e va dritto a sterminare venti bambini.
Credo che l’angelo ferito abbia il sembiante del bambino e di colei/colui che si scopre vera madre/vero padre nel momento perfetto in cui il suo sguardo più nudo e interconnesso al cuore si affissa su quella creatura, che finalmente scopre come tale, legame che slega il genitore dal sé e lo proietta oltre, alla ricerca di quella luce la cui brama sola può far spuntare germogli d’ali. Ma il legame, per chiudersi a cerchio e tentare l’infinito come circolo inesausto, non può che unire la mano del neonato a quella del vecchio. Ha scritto Ceronetti: “Tocca ai poeti, quelli che meritano l’aggettivo di grandi, ristabilire misura e verità: Dylan Thomas dedicò versi di forte compianto per un uomo di cent’anni, ucciso sul marciapiede da un bombardamento su Londra nel 1941. Questa è pietà vera; quella che non comprende il centenario insieme a chi è nato il giorno prima è uno spregevole sputo” (“Insetti senza frontiere”, aforisma 212).
Dopo tragedie come quella di Newtown dobbiamo sentire ancora più forte vibrare dentro noi l’urgenza della parola che ricuce e risana, dell’azione pietosa che raccoglie ed accoglie. Sondato il male nelle sue più oscure profondità, occorre riemergere alla luce e all’aria aperta, respirare e trovare nuovi appigli contro il nulla del male che avanza, e spiana tutto ciò che incontra, demoniaco bulldozer che sbuca dalle nostre viscere. E così, oltre ai tratti dell’assassino, al mistero, inspiegabile, del suo gesto, inspiegabile come quello delle violenze inaudite narrate da Ivan Karamazov, in queste ore emergono anche elementi di eroismo da parte di alcuni dipendenti della scuola, che hanno protetto gli alunni come hanno potuto, anche facendo loro scudo con il proprio corpo. Sei donne sono morte. La preside, tra l’altro, ha avuto la prontezza di accendere l’altoparlante per diffondere le urla e i pianti dei bambini e dare così l’allarme, probabilmente salvando altre vite. Poi, insieme alla psicologa della scuola, è caduta sotto i colpi del killer. E allora viene da dire a Brecht che forse si sbagliava, che abbiamo ancora bisogno di eroi, almeno di certi eroi, e saremo fortunati come popolo finché ne avremo, perché di demoni ce ne sono e ce ne saranno sempre, stiamone certi. Nessuno si illuda.
Sì, hai ragione invece tu, David Bowie, quando canti “Heroes” (epica ed elettrica la versione al Live Aid del 1985, con la dedica iniziale a suo figlio, e ai figli di tutto il mondo): noi possiamo essere eroi, anche solo per un giorno. Dobbiamo esserlo, quotidianamente. Noi, i guardiani degli angeli, che soltanto se vedranno in noi il gesto protettivo adempieranno al loro compito, e saranno a loro volta i nostri custodi.
“E i fucili sparavano sopra le nostre teste / e noi ci baciammo, come se niente potesse accadere”, cantava Bowie. L’unica differenza, caro Duca Bianco, è che in casi come Newtown o Beslan la vergogna non è dall’“altro lato”, e la divisione è meno netta di quella segnata da un muro a Berlino, ma si annida qui e là, fra noi tutti, dentro questa nostra maledetta e benedetta specie umana. Riposate in pace, perdonateci e vegliate su di noi, angeli di Newtown. Da domani cercheremo di essere quegli eroi da voi sempre sognati. Perché il male e i suoi emissari non si illudano di averla vinta, una volta per tutte, a Newtown. Continueremo a resistergli, e questo è un fatto. Diglielo, Bowie: “possiamo batterli, ancora e per sempre”.