a cura di Sandra Mariani*
Già professore ordinario di Estetica e Storia e Civiltà dell’Asia orientale all’Università di Siena-Arezzo, Grazia Marchianò ha vissuto e studiato in India e in Giappone. Per le sue ricerche nelle tradizioni estetiche e spirituali mondiali, in particolare l’advaita vedanta indiano e il buddhismo shingon giapponese la Open University, Edinburgo, le ha conferito il dottorato honoris causa. Ha diretto collane di estetica e orientalistica, pubblicando volumi e saggi in italiano e inglese presso svariati editori e riviste internazionali. In Italia ha curato e introdotto opere di Ananda K. Coomaraswamy, Nisargadatta Maharaj, Alain Daniélou, I. P.Culianu e Elémire Zolla, firmandone la biografia intellettuale Il conoscitore di segreti (Marsilio 2012). Interprete del pensiero zolliano, è curatrice dell’Opera omnia presso Marsilio. Ha fondato l’Associazione Internazionale di Ricerca Elémire Zolla (AIREZ), promuovendo a Montepulciano nel 2012 il convegno internazionale Labirinti della mente. Visioni del mondo. Il lascito intellettuale di Elémire Zolla nel XXI secolo, curandone il volume degli Atti presso la Società Bibliografica Toscana, Pienza 2012.
Lei sta curando la riedizione dell’opera omnia di Elèmire Zolla per Marsilio. Con la lettura di quale scritto consiglierebbe di iniziare ad avvicinarsi al pensiero zolliano e, invece, quale scritto consiglierebbe a conclusione di una ipotetica lettura totale dei testi di Zolla? Quale testo, cioè, ritiene possa contenere la parola testamentaria, l’ultimo e più arduo lascito nella vastissima e poligrafa produzione zolliana?
Per chi si accosta oggi al pensiero di Zolla, consiglio di iniziare dalla mia biografia intellettuale dello scrittore, Il conoscitore di segreti, ristampata da Marsilio nel 2012. Il titolo definisce un aspetto inconfondibile dell’atteggiamento zolliano verso il sapere. Accumulare conoscenze e espanderle nel maggior numero possibile di direzioni, dalla storia alle letterature, dalla filologia al diritto all’antropologia, alle religioni, alle filosofie di Oriente e Occidente, fu il patto che, caduto molto presto gravemente ammalato, stabilì con se stesso, e la vocazione alla scrittura fece il resto. In ognuno dei suoi libri dal primo che fece scalpore, L’eclissi dell’intellettuale (Bompiani 1959) all’ultimo, Discesa all’Ade e resurrezione, pubblicato da Adelphi, l’anno della morte, il 2002, vibra disincantata e compassionevole allo stesso tempo, la riflessione sulla complessità e le contraddizioni della natura umana, sulle occasioni di abiezione e redenzione che ai singoli e alle collettività procura l’appartenenza a un’identità etnica meno scottante in una società globalizzata, e tuttavia ancora dominata da fanatismi e perniciose allucinazioni del Potere, sia esso ideologico, finanziario, religioso, mediatico ma sempre onnivoro e totalitario. In questo mese di maggio Marsilio pubblica il quarto titolo dell’Opera omnia: Filosofia perenne e mente naturale. Nella mia introduzione ricostruisco il passaggio pienamente attuato nelle prime due parti del libro, da una vi-sione miope e contrastiva dell’onnipotenza del logos nel pensiero occidentale, al supera-mento dei dualismi di cui il cozzo ‘ragione’-‘irrazionalità’ costituisce il caso lampante. Per Zolla la riconquista di una mente naturale comporta l’accesso a una visione del rapporto mito-storia, individuo-società, terra-cosmo, fisica-metafisica in cui ci si impegna a riconoscere la compe-netrazione e l’interazione dinamica dell’Uno nei molti, del due nel tre. Zolla definisce perenne una filosofia capace di ripristinare l’alleanza, oggi non più utopica, tra scienza e spiritualità, terreno e cosmico.
Zolla ha indagato da laico il pensiero religioso, il fenomeno religioso. Nella sua ricerca ha ac-costato culture geograficamente e storicamente lontane. Come si dipanava la ricerca di Zolla?
Se volessi tentare di descrivere in pochissime parole la prospettiva di Zolla filosofo della cultura, mi servirei di tre formule avverbiali: dall’alto, da dentro e da lontano. ”Da lontano” significa l’aver raggiunto, grazie a un sapere vastissimo e alle ricerche sul campo in quattro continenti, una cogni-zione non confinaria ma planetaria delle società umane. Inoltre l’esplorazione di Zolla è avvenuta in ‘interiore homine’, ‘da dentro’ e ‘dall’alto’ scrutando quelle ‘potenze dell’anima’ ingigantite nei mistici, nei visionari , nei contemplativi e nei creativi di ogni tempo e latitudine ma presenti e pronte al risveglio in ogni individuo quasi senza eccezione. L’immagine spinoziana del divino: Deus sive Natura è stata per Zolla la più vicina a indicare la coincidenza di immanenza e trascendenza nell’insieme di funzioni, facoltà e prerogative che fanno capo alla mente umana.
Zolla ha conosciuto e apprezzato gli studi di Culianu: come si incontrarono i loro orizzonti di studi?
Ioan Petru Culianu (1950-1991) è stato un epistemologo e uno storico delle religioni rumeno del tutto geniale, di cui Zolla e io fummo amici e collaboratori nel giro di pochi anni prima che venisse assassinato all’Università di Chicago, per motivi politici rimasti oscuri. Lo invitai a tenere un corso sul Faust nella mia Facoltà ad Arezzo, e Zolla, a sua volta all’Università di Roma La Sapienza, e in un giro di conferenze tra il 1989 e il 1990. Abbiamo commentato la sua opera in varie occasioni e Zolla gli ha dedicato un lungo saggio nella parte terza di Filosofia perenne e mente naturale. L’ultima opera di Culianu tradotta da Mondadori col titolo “I viaggi dell’anima” si avvicina moltis-simo, nella messa a fuoco seducente e intrigante di una visione complessiva, quasi un testamento intellettuale, all’opera anch’essa tardiva di Zolla, Uscite dal mondo (Marsilio 2012), dove sono profilati i caratteri di due grandi méntori di Culianu, Mircea Eliade (m. 1986), e Moshé Idel (m. 1947) , il massimo specialista odierno di Qabbalah.
La filosofia, prima di essere una disciplina, è un modo di guardare le cose e uno stile di vita. Lei è stata Ordinario di Estetica e di Storia e Civiltà dell’Asia orientale all’Università di Siena-Arezzo, perciò conosce dall’interno stili filosofici diversi, ritenuti spesso incompatibili. Che esperienza ne ha tratto, e secondo Lei la filosofia oggi ha qualcosa di importante e vitale da insegnare ?
Negli anni in cui insegnai a Siena-Arezzo fino al 2002, feci molta fatica a introdurre nel corso di studi filosofici Storia e Civiltà dell’Asia orientale, ritenuta una materia inappropriata in una facoltà non orientalistica. E una fatica analoga se non maggiore, mi costò l’introduzione di un approccio e una metodica comparativa all’insegnamento dell’estetica filosofica, che a Lettere si apprende circo-scritta alla sola tradizione europea e occidentale. India, Cina, Giappone erano considerati mondi a parte, di cui solo le rispettive filologie avevano titolo a occuparsi. Tra l’altro fu la mia giovanile apertura al pensiero indiano, che perfezionai all’Università Tagore nel Bengala, appena prima del conseguimento della Libera Docenza corrispondente all’odierno dottorato, a interessare Zolla a una giovane bizzarra che dopo aver pubblicato la sua opera prima, Il codice della forma (Dedalo 1968), se n’era andata a studiare in India, facendo del giornalismo culturale freelance. L’immersione di Zolla nelle civiltà e nelle religioni dell’Asia orientale, induismo, buddhismo e sciamanesimo, data da quando costruimmo il sodalizio umano e intellettuale durato poi un quarto di secolo.
Rispondo alla domanda sulla vitalità della filosofia, al di là delle nozioni che una formazione filoso-fica procura in una prospettiva che dalle nostre parti è ancora troppo spesso storicistica. La filosofia europea insegna a pensare, inquadra le idee e dà forma ai ragionamenti. Utile ma insufficiente per chi sente l’esigenza di crescere interiormente, di allenarsi con le proprie forze a un risveglio delle potenzialità di se stesso: corpo, psiche, mente e spirito. Esiste un logos più vasto di quello esclusivamente razionale e argomentativo. In sanscrito lo si chiama bodhicitta, alla lettera ‘pensiero del risveglio’ o ‘mente illuminata’. E’ un obiettivo raggiungibile quando azione e con-templazione, pensiero e esperienza, mente e cuore si rendono complici l’una dell’altro. In questo caso la filosofia si fa portatrice di un modo di essere arricchito e rinnovato. Si impara a ri-nascere, a uscire dalla propria maschera personale, momento per momento (‘maschera’ e ‘persona’ significano la stessa cosa).
L’immaginazione, come altissima capacità che l’uomo ha di entrare in contatto con gli archetipi, è un tema a lei caro. Come agire in maniera immaginale se oggi le immagini ci arrivano dall’esterno in quantità massiva e, spesso, con perentorietà tali da rischiare di intorpidire la mente?
La facoltà immaginativa è agli antipodi del fantasticare erratico, che appunto, come Lei osserva giustamente, intorpidisce i sensi e la mente. Zolla prescriveva l’astinenza dalle immagini che ci asse-diano dall’esterno. Se ne cadiamo vittime, diventa molto più difficile pilotare l’insight, l’intuizione immaginante, sia nella coscienza lucida che nello stato di sonno. É esistito in Tibet uno yoga del sogno, che insegna a modellare le immagini interiori, a penetrare in piani ultra-fisici dell’esperienza documentati in svariate correnti della filosofia indiana e persiana, del taoismo e del buddhismo esoterici. Nello stesso Rinascimento italiano fu coltivata un’arte della memoria capace di suscitare l’anamnesi di piani sottili di realtà. Giordano Bruno immaginò ‘mondi di mondi‘ dai bordi sconfinati. Fu un’immaginazione creatrice come quella dantesca, e l’affabulazione è alla radice di ogni dinamica della psiche: dove e come orientarla dipende da noi.
L’estetica per gli antichi Greci consisteva nell’ “inspirare bellezza”: era pensiero del cuore, centro propulsore e di convergenza delle sensazioni, era apprensione di immagini di cui la bellezza era luce e struttura. La bellezza, lontano dall’essere ornamento aggiunto delle cose, era la loro stessa visibilità e, anche, ciò che le rendeva un «cosmo», la disposizione della pluralità accessibile all’uomo. Oggi noi ci ritroviamo sempre più spesso ad essere colpiti dalla disarmonia, a “trattenere il fiato” per ciò che è brutto, quasi che la bellezza avesse perso la sua più propria natura, quella di essere visibile. Perché, oggi, si ha questo corrispondere dell’uomo alle cose e quale può essere il ruolo dell’estetica oggi?
Se si risale a concezioni arcaiche riconoscibili nelle espressioni artistiche più antiche, dalla poesia alla pittura parietale, alla scultura, alla musica e alla danza tribali, ci si accorge che ‘non è bello ciò che piace’ ma ciò che racchiude in sé una carica trascinante e efficace di vitalità, nel ritmo, nella forma plastica, nel canto, nella recitazione poetica. Nella diade platonica kalóskagathós, «bello e buono» congiunti, è ancora possibile riconoscere la primigenia saldatura di bellezza, efficacia e valore, molto prima che i distretti dell’etica e dell’estetica si separassero irreversibilmente. L’ornamento arcaico è uno stigma di vitalità. Nella teologia sumerico-accadica è descritta la discesa nell’Oltremondo di Ishtar per recuperare l’Acqua di Vita. In ogni piano della discesa, la dea deve spogliarsi dei fulgidi ornamenti che la abbigliano. Solo a missione compiuta, Ishtar potrà riappropriarsene. Si soppesano in questo mito due equivalenze simmetriche: ornamento-vita e per converso sguarnizione-morte. Il morto si figura disadorno, sprovvisto di «gioie», afflitto da un perpetuo anonimato, dalla fame di ‘essere’ e non poter vantare la propria ‘immagine’ accentuata dagli ornamenti. Emerge una concezione arcaica per la quale bellezza è sinonimo di vitalità e potere, potere di incan-tare e sedurre. L’attrazione al brutto, allo spregevole, all’orrido nelle arti e nella condotta è un evi-dente segno dei tempi così come lo è l’allentamento della capacità di giudizio, estetico e etico. Se tutto è ammesso, l’attrazione al nulla produce su di noi un incanto esiziale.
* Intervista apparsa sul sito www.insulaeuropea.eu
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