di Tommaso Milani
Il dato politico più eclatante della recente tornata elettorale è la crisi del bipolarismo. Nel 2008, su 38 milioni di voti espressi (Camera dei Deputati), i due principali partiti ne conquistarono circa 26, pari al 68%; aggiungendovi i consensi raccolti dai loro alleati (Lega Nord, Movimento per l’Autonomia e Italia dei Valori) la percentuale superava l’80%. Più di quattro elettori su cinque, in altre parole, accordarono fiducia ai grandi schieramenti. Cinque anni dopo, meno di 16 milioni di elettori sui circa 35 recatisi alle urne – pari al 45% – hanno optato per PD e PdL. Le due coalizioni, benché più estese, hanno raccolto un modesto 57%. Solo sei italiani su dieci, pertanto, hanno scelto forze collocatesi entro lo schema bipolare.
Le ragioni di tale crisi sono da ricercare in parte all’interno del sistema politico, in parte al di fuori di esso.
Un maturo sistema bipolare prevede anzitutto un’alternanza fra due raggruppamenti competitivi e distinti, entrambi in grado di dar vita, in base alle circostanze, a una maggioranza parlamentare che guidi il Paese e a un’opposizione che la incalzi, la contrasti ed eventualmente la rimpiazzi. Questa lineare dinamica – del tutto estranea alla Prima Repubblica, imperniata com’era sulla ‘conventio ad excludendum’ nei confronti del PCI – sembrava avere attecchito, sia pure faticosamente, durante l’ultimo quindicennio: alla vittoria dell’Ulivo nel 1996 era seguita l’affermazione della Casa delle Libertà nel 2001, sconfitta a sua volta nel 2006. Le elezioni del 2008 erano parse a molti una tappa cruciale nel processo di costruzione di un centrodestra e di un centrosinistra coesi, imperniati su due grandi partiti, con bacini elettorali ampi e presenti sull’intero territorio nazionale.
Nel corso dell’ultima legislatura, tuttavia, è emerso con chiarezza come bipolarismo e buongoverno non siano necessariamente sinonimi. La nascita dell’esecutivo guidato da Mario Monti ha certificato, per un verso, l’inadeguatezza di PdL e Lega, incapaci di varare – malgrado il forte mandato popolare ricevuto – riforme strutturali che, se introdotte per tempo, avrebbero attenuato l’impatto della crisi globale sull’economia italiana; per l’altro, la riluttanza di PD e IdV ad affrontare nuove elezioni, col rischio di vincere e vedersi costretti ad adottare in solitudine misure indispensabili a garantire la tenuta dei conti pubblici ma sgradite alla propria base (riforma previdenziale, aumento generalizzato delle imposte).
Il Governo tecnico ha dunque costituito un orpello dietro al quale PdL e PD hanno celato le rispettive debolezze, tentando di recuperare o preservare la propria credibilità mediante un inedito connubio e la conseguente rottura con le rispettive ‘ali’. È lecito ritenere, comunque, che la grande coalizione sia stata mal digerita da numerosi elettori e dirigenti, alimentando delusione e rabbia: a sinistra, per la necessità di scendere a patti con l’arcinemico Berlusconi; a destra, per la rottura dell’alleanza di governo e il sostegno a provvedimenti volti a inasprire il carico fiscale. Su questioni di primaria importanza (riforma del lavoro, legge anti-corruzione) la ‘strana maggioranza’ ha sovente mostrato la corda, rivelando come la sofferta coesistenza non stesse evolvendo verso una virtuosa collaborazione. L’aspra campagna elettorale condotta da ambo le parti, tesa a evidenziare l’impraticabilità di ulteriori larghe intese, ha probabilmente galvanizzato gli ultras di entrambi i club, ma ha solo in parte arrestato il deflusso di elettori turbati da tanto repentini voltafaccia.
Alla sospensione dell’alternanza vanno poi aggiunte, come detto, variabili esterne al sistema politico. La più rilevante è senza dubbio l’aggravamento della recessione. Con un tasso di disoccupazione passato, nel giro di un anno e mezzo, dall’8,4% all’11,7%, la pressione fiscale salita di quasi due punti percentuali, un PIL in calo del 2,4%, è plausibile che un elevato numero di elettori abbia inteso manifestare col voto la propria insoddisfazione per la gestione della congiuntura, le cui responsabilità gravano su PdL, PD e Monti. Né stupisce che uno dei principali serbatoi di consenso del Movimento Cinque Stelle siano i giovani (fascia d’età 18-23 anni), tra i più penalizzati dal calo delle assunzioni.
Tagli ai servizi e nuove tasse, come ovvio, sono di per sé impopolari, tanto più in una fase in cui la nostra rete di welfare mostra disfunzioni e carenze tali da esporre al rischio povertà buona parte degli espulsi dal mondo del lavoro. Eppure, a un esame attento, quella italiana pare avere i tratti di una rivolta ‘anti-establishment’ prima ancora che ‘anti-austerity’. A suscitare malessere, infatti, non sembra tanto essere l’entità dei sacrifici richiesti quanto la loro distribuzione: la percezione – corretta o meno, poco importa – che finora essi siano stati imposti ai ‘molti’ e non ai ‘pochi’.
L’area ‘progressista’ ha declinato il tema del privilegio insistendo sulla necessità di ridistribuire più e meglio il reddito nazionale, colpendo i grandi patrimoni, confortata dal fatto che la maggioranza degli italiani – stando a numerosi sondaggi svolti fra il dicembre 2011 e il gennaio 2013 – ha giudicato poco eque le scelte dei tecnici. Ed è stata, appunto, la giustizia sociale una delle principali bandiere agitate dal PD bersaniano, SEL e Rivoluzione civile negli ultimi mesi. Numeri alla mano, però, la strategia non sembra aver pagato: l’area genericamente ascrivibile al centrosinistra e alla sinistra, infatti, ha raccolto appena 10,8 milioni voti, a fronte dei 15 conquistati nel 2008.
È un’altra concettualizzazione del privilegio, in effetti, a essersi radicata nell’opinione pubblica, sull’onda degli scandali e delle scelte operate dalle principali forze in campo: non più un intollerabile divario di classe, bensì di status, quello che separerebbe burocrati e professionisti dalla politica dai comuni cittadini. Numerosi indizi confermano questa tesi. L’emorragia di consensi del PD è iniziata quando un esperto ex ministro, Pier Luigi Bersani, ha prevalso su un giovane sindaco inviso ai dirigenti del proprio partito, Matteo Renzi. La popolarità di Mario Monti, a lungo attestatasi fra il 40 e il 60%, è diminuita di pari passo con la ‘politicizzazione’ della sua figura, mentre la Lista Civica recante il suo nome e allestita in pochi giorni, in larga parte composta da non-politici, ha comunque raggiunto un non disprezzabile 8,3%, ridimensionando leader di lungo corso come Casini e Fini. Beppe Grillo, infine, ha fatto della lotta alla “casta” il leit-motiv del proprio, trionfale Tsunami Tour. Ben più che l’Euro o la Germania, nel mirino del comico sono finiti il ceto partitocratico e i suoi costi, ritenuti la causa principale dell’alto indebitamento pubblico e del declino del Paese. Il suo anti-capitalismo, del resto, non è assimilabile a quello di un Vendola di un Ingroia, se è vero – come suggeriva in una “Lettera Aperta a Mario Monti” (24 novembre 2011) – che il governo tecnico avrebbe dovuto procedere al “taglio dei costi inutili prima di qualunque tassa sulla prima casa, della patrimoniale o dell’aumento dell’IVA”, tagli che avrebbero dovuto colpire “le province, i finanziamenti elettorali, i contributi pubblici all’editoria”, oltre alle grandi opere.
È impossibile prevedere con esattezza gli sbocchi della situazione di stallo creatasi all’apertura delle urne. Due insegnamenti, tuttavia, possono essere tratti dagli eventi dell’ultima legislatura. Il primo: un sistema di partito sopravvive fintantoché le forze che lo compongono riescono a garantire decisioni efficaci, rapide e tali da assicurare l’equilibrio del sistema socio-economico all’interno del quale i partiti stessi operano. La possibilità che alla spinta centrifuga del 2013 segua una centripeta pari a quella di cinque anni fa dipenderà soltanto dalla capacità dei due poli di ristrutturarsi e riaggregarsi, evitando corto-circuiti e vuoti di potere paragonabili a quelli dell’autunno 2011. Il secondo: un sistema di partito può rapidamente deteriorarsi se le più pressanti richieste provenienti dalla cosiddetta ‘società civile’ restano troppo a lungo inevase. Gruppi, associazioni, movimenti le cui istanze non trovano sbocchi nei contenitori esistenti finiranno presto o tardi per costituirne di propri. Né coperture offerte da esecutivi tecnici né roboanti campagne elettorali possono del resto colmare il divario fra politiche richieste, politiche promesse e politiche realmente perseguite, quand’esso si fa troppo ampio.
Più che a fattori esterni, quindi, è alla deficitaria condotta di PD e PdL che bisogna guardare per comprendere la balcanizzazione del Parlamento e la brusca interruzione della fragile, acerba stagione bipolare italiana.
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