di Tommaso Milani
Le recenti cronache (giudiziarie e non solo) consegnano un’immagine non certo lusinghiera dell’Emilia-Romagna e del suo ceto politico. Alle titubanze esibite dai dirigenti, locali e nazionali, del Partito Democratico, artefici di estenuanti trattative per designare il successore del presidente uscente Vasco Errani, si è aggiunta l’azione della magistratura, con un’inchiesta su rimborsi spese gonfiati allargatasi ormai a tutti i gruppi presenti in Consiglio regionale. La situazione di stallo all’interno delle forze di maggioranza e la parallela attività degli organi inquirenti hanno concorso a determinare un esito nient’affatto scontato alla vigilia: il candidato governatore della coalizione di centrosinistra sarà scelto mediante primarie aperte, libere e (almeno sulla carta) competitive.
Vari indicatori delineano un quadro problematico non soltanto sotto il profilo politico. Il tasso di disoccupazione ha recentemente superato la soglia del 9%, un dato inferiore alla media nazionale ma non a quello di Lombardia e Veneto. La contrazione del PIL si è attestata al 2.5% nel 2012, all’1.4% l’anno successivo, con cali della domanda interna rispettivamente del 4.4% e del 2.4%. Il settore manifatturiero, spina dorsale dell’economia regionale, ha mostrato segni di ripresa nel primo trimestre del 2014 ma assai più timidi che nel resto del Nordest e senza benefici tangibili per la piccola e media impresa. Difficile ipotizzare un rapido ritorno ai livelli di benessere anteriori alla crisi: secondo alcune stime, i redditi reali fra il 2008 e il 2012 sono scesi di oltre sette punti percentuali.
Sarebbe un errore, tuttavia, interpretare queste cifre in chiave deterministica: le falle apertesi nel cosiddetto «modello emiliano» hanno un’origine interna al sistema partitico, antecedenti alla recessione. Numerosi episodi di uso improprio di denaro pubblico, tali da configurare, talora, veri e propri reati – come nei casi di Flavio Delbono, ex assessore nonché vicepresidente, e Paolo Nanni, consigliere: entrambi hanno scelto di patteggiare – risalgono infatti alla prima metà della legislatura 2005-2010, quando la regione registrava discreti livelli di crescita economica, almeno per gli standard italiani. La radice, semmai, è da ricercare nell’assenza di alternanza; o – per meglio dire – nella pochezza delle forze d’opposizione, incapaci tanto di costituire un’alternativa credibile quanto di esercitare una funzione di controllo, con la parziale eccezione del Movimento Cinque Stelle. Come ha recentemente riconosciuto l’ex sindaco di Bologna, Giorgio Guazzaloca: «In Emilia-Romagna il centrodestra non ha mai schierato i suoi uomini migliori. Ha sempre mostrato debolezza e subalternità» (intervista al “Corriere della Sera”, 14 settembre). Il fatto che alcuni esponenti del defunto PDL siano a loro volta coinvolti negli scandali può addirittura suscitare il sospetto di un implicito scambio: parte della minoranza avrebbe chiuso un occhio su comportamenti potenzialmente illeciti, venendo meno al proprio ruolo di “cane da guardia” ma assicurandosi la facoltà di tenere condotte analoghe, in un clima di diffusa complicità e malcostume consociativo.
Prescindendo dalla disamina delle responsabilità individuali, sia penali sia politiche, la vicenda emiliano-romagnola suggerisce comunque una riflessione di carattere sistemico. Se è vero che l’inconsistenza delle opposizioni può avere alimentato nei membri della maggioranza un senso d’impunità, derivante dalla pressoché totale certezza della rielezione, allora va ricordato che la formula elettorale vigente in (quasi) tutte le regioni italiane rende particolarmente arduo scalzare chi governa. In un assetto ormai tripolare, infatti, l’assenza di un secondo turno favorisce la colazione che può contare su uno zoccolo duro di elettori sufficientemente ampio e fedele, pari almeno al 30-35% dei voti espressi. Un caso esemplare è quello della Lombardia, la cui classe politica è stata toccata da scandali non meno gravi di quelli emiliano-romagnoli. Nel 2010 Roberto Formigoni fu rieletto presidente per la terza volta col 56%, percentuale cui corrisposero circa due milioni e settecentomila voti (affluenza al 72%). Tre anni dopo, complici anche le note vicissitudini giudiziarie, quasi duecentocinquantamila cittadini voltarono le spalle al centrodestra: Roberto Maroni si fermò al 42,81%, contro il 38,24% di Umberto Ambrosoli (affluenza al 76%). Trattandosi di un’elezione a turno unico, Maroni fu eletto. Ma cosa sarebbe accaduto in caso di ballottaggio? Non si può escludere l’eventualità che Ambrosoli avrebbe vinto monopolizzando il voto dei delusi, persone non necessariamente vicine al centrosinistra ma attratte dalla discontinuità: si pensi, ad esempio, a una fetta dei consensi “grillini”.
È significativo che proprio nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, dove il doppio turno è la norma, i favoriti abbiano incassato le più clamorose sconfitte, impensabili alla vigilia. Nel 1999 il già citato Guazzaloca prevalse di misura su Silvia Bartolini, ma al primo turno la candidata dei DS aveva ottenuto il 46.62% contro il 41.53% del suo sfidante. A Parma, nel 2012, il pentastellato Pizzarotti trionfò col 60.22%: in prima battuta, però, si era classificato dietro al democratico Bernazzoli, con venti punti di distacco. E lo stesso vale per le ultime consultazioni tenutesi a Livorno, Pavia, Padova, Perugia, Potenza, Urbino, dove – chiamati a scegliere fra due candidati, uno “nuovo” e uno vicino alla precedente amministrazione – gli elettori hanno rovesciato gli equilibri iniziali, premiando nello scontro diretto l’outsider partito in svantaggio.
Ricapitoliamo. Se è vero che, come ammoniva Karl Popper, uno dei compiti della democrazia liberale è implementare meccanismi in grado di controllare chi comanda, allora la legge elettorale può fornire un contributo notevole in tal senso. Un politico meno sicuro di essere rieletto è un politico maggiormente responsabilizzato, un politico consapevole del fatto che dovrà rendere conto delle proprie azioni, incluse quelle inappropriate ancorché lecite. La Regione Toscana ha recentemente riformato la propria legge elettorale, introducendo il secondo turno qualora nessun candidato raggiunga almeno il 40% dei voti al primo. La misura va nella direzione giusta e potrebbe offrire lo spunto per un dibattito costruttivo fra gli addetti ai lavori. Perché non estendere alle regioni la stessa formula elettorale in vigore per i grandi comuni? Ne guadagnerebbe la qualità della nostra vita pubblica, giacché crescerebbero le nostre chance di sanzionare, democraticamente, i cattivi amministratori.
Lascia un commento