di Alessandro Campi
Tra i numerosi partiti che si sono sottoposti al giudizio degli italiani in queste ultime elezioni, figurava anche “Il Popolo della Famiglia”. Alla Camera ha ottenuto 218,866 voti (pari allo 0,66% delle schede scrutinate). Al Senato 211.273 (0,7%). Era l’unica formazione, tra quelle in competizione, apertamente d’ispirazione cristiano-cattolica. Sul piano della dottrina, il suo richiamo esplicito andava alla dottrina sociale della Chiesa. I suoi obiettivi dichiarati erano la difesa dei valori cosiddetti “non negoziabili”: in particolare il diritto della vita (dal concepimento alla morte) e la centralità della famiglia.
A voler essere irriverenti e grossolani si potrebbe dire che il cattolicesimo politico nell’Italia ancora nominalmente cattolica (se non per pratica di fede e stile di vita collettivo, almeno per storia e antropologia) vale meno dell’1 per cento. Ma il tema è troppo serio e complesso per poter essere messo in questi termini. Anche perché nessuno ha nostalgia (o desidera) la presenza di un partito che agisca su una base apertamente confessionale. Nemmeno la Democrazia cristiana, al di là del contrassegno che la rendeva simbolicamente riconoscibile come il ‘partito cattolico’, ha mai avuto un simile carattere. Anzi, è stata lungamente guidata da una dirigenza che, a partire da De Gasperi, ha sempre praticato la separazione fra sfera politica (secolare per definizione) e sfera religiosa. Da quando poi la Dc è scomparsa l’idea stessa di un ‘partito cattolico’ o di una unità politica dei cattolici è entrata definitivamente in crisi, sostituita da una sorta di pluralismo nelle scelte di militanza e nelle preferenze di voto che però presupponeva pur sempre che il popolo dei credenti – presi questi ultimi singolarmente o inseriti nelle loro strutture associative – avesse una sua soggettività politica e una sua incidenza effettiva sulla scena pubblica nazionale.
Alla luce del recente risultato elettorale, considerando i partiti che alla fine hanno ottenuto seggi (e che rappresentano quasi il 90% dei voti), si ha invece l’impressione che nessuno di essi in vista del voto abbia agitato temi e argomenti che potessero far pensare che il mondo cattolico, nella sua complessa articolazione interna, rappresentasse per essi qualcosa come un interlocutore privilegiato o un’area socio-elettorale di riferimento, alla quale inviare messaggi specifici o da blandire in una qualche forma.
Un’eccezione in questo quadro può essere considerato il Partito democratico, al quale sono andate le simpatie più o meno velate delle gerarchie vaticane e di diversi alti esponenti ecclesiastici. Ma il punto d’intesa o convergenza tra queste ultime e la formazione guidata da Matteo Renzi (col quale s’era in precedenza polemizzato sulle tematiche del biotestamento e delle coppie di fatto) non è andata molto oltre il tema dell’integrazione e dell’accoglienza riferito agli immigrati e ai profughi. E’ stato, per così dire, l’incontro tra due etiche, una laica e una d’ispirazione religiosa, sostenute dal comune richiamo al valore della solidarietà. Enfatizzare troppo questa intesa o convergenza ci porterebbe però a concludere che il voto che la Chiesa in Italia riesce ad orientare, nella più ottimistica delle valutazioni, non va oltre il 18%, che è stato appunto il risultato non proprio eclatante conseguito dalla sinistra democratica.
In realtà, i cattolici in Italia – i credenti come i praticanti – sono una massa sociologica molto più vasta, probabilmente la maggioranza della popolazione (soprattutto nel Mezzogiorno). Solo che hanno votato, questa è almeno l’impressione, come se il loro essere cattolici o credenti non avesse (e non abbia più, rispetto al recente passato) alcuna relazione con la loro scelta politica e con le ragioni che l’hanno determinata. Si è scelto il M5S, la Lega, Forza Italia o Fratelli d’Italia (cioè i partiti che hanno raccolto quasi il 70% dei voti) sulla base innanzitutto di opzioni meramente soggettive e individuali, senza che dal mondo dell’associazionismo cattolico o dalle istituzioni vicine alla Chiesa venisse una qualunque indicazione positiva o preferenza verso queste formazioni (semmai ne sono venute critiche e denunce allarmate aventi quasi sempre per oggetto il pericolo del populismo). Ci si è poi orientati come se il proprio credo avesse un rilievo solo intimo e personale e fosse dunque ininfluente sul proprio agire in società, per il quale ci si ispira ad altre tavole dei valori.
I grillini potrebbero in realtà aver intercettato una certa sensibilità cattolica con la loro visione pauperistica della militanza politica e con la loro visione di un’economia che deve proteggere e tutelare i più deboli. Ma in realtà, nel voto al M5S è più probabile che abbiano contato, su un piano meramente materiale, il disagio economico e la crisi occupazionale del Sud, nonché un certo spirito punitivo nei confronti del vecchio ceto politico d’ogni colore. Una rabbia e un risentimento, quelli alla base dello spirito di protesta grillino, davvero poco compatibili con qualunque visione di un bene comune che per il buon cristiano si costruisce attraverso il consenso, la prudenza, l’ascolto delle buone ragioni dell’altro e il controllo dell’emotività.
Quanto ai partiti di centrodestra, se da un lato hanno talvolta strizzato l’occhio ai cattolici nel nome di generici richiami ai valori cosiddetti tradizionali (a partire dalla famiglia), dall’altro hanno impostato la loro propaganda, con toni assai allarmistici nel caso della Lega, in gran parte sulla necessità di contenere i flussi migratori e di rivedere le attuali politiche d’accoglienza giudicate troppo permissive. Esattamente il contrario della pedagogia che vuole “educare la popolazione a passare da un atteggiamento negativo a un atteggiamento più positivo nei confronti dei migranti”, per riprendere le parole utilizzate ieri – proprio a commento del voto – dal segretario di Stato vaticano Pietro Parolin. Parole che da un lato confermano l’idea – che è in primis di papa Francesco – che nei migranti si debba innanzitutto vedere una fonte di arricchimento culturale e di potenziale sviluppo economico. Ma che dall’altro mostrano come una sorta di indifferenza o rassegnazione alla discrasia che pure si è registrata con evidenza tra l’orientamento ufficiale della Chiesa su questa materia e le scelte di molti cittadini cattolici. Che nelle chiese ascoltano con attenta devozione gli inviti degli officianti a praticare l’accoglienza e a non erigere muri. Ma che nella vita quotidiana (e nelle urne) si fanno evidentemente guidare da paure e pulsioni che la Chiesa dovrebbe cercare di comprendere senza condannarle preventivamente come una forma di egoismo da benessere. I deboli, gli ultimi, gli smarriti, i confusi, i marginali, i poveri sono anche tra noi, a milioni, e abbandonarli ai demagoghi che li consolano rappresenta un pericoloso abbaglio.
Parlare di fine del cattolicesimo politico, o di una crescente marginalità dalla sfera politico-pubblica dei temi che sono fondanti della dottrina sociale cristina e della sua etica politica forse è eccessivo. Ma alla luce del voto del 4 marzo chiedersi come abbiano votato i cattolici e perché, e se abbiano votato anche in quanto cattolici ed eventualmente come, non è del tutto peregrino. Tra i tanti cambiamenti radicali determinati, almeno sulla carta, da queste elezioni forse c’è anche l’inizio di una pagina nuova nel rapporto dei credenti con la politica e, in particolare, dei credenti italiani con gli orientamenti in senso lato politici che sono alla base della Chiesa di Bergoglio.
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