di Danilo Breschi

9788854872578Si possono trarre molte lezioni dalla lettura dello studio dedicato da Federico Leonardi alla vita e all’opera di Arnold J. Toynbee (Tragedia e storia. Arnold Toynbee: la storia universale nella maschera della classicità, Aracne, Roma 2014), che contiene anche due interessanti testi inediti. Anzitutto impariamo che l’Inghilterra, all’epoca del suo apogeo come potenza imperiale, dimostrò quanto una classe dirigente di livello mondiale fosse tale anche grazie ad una formazione classica. In apertura del suo saggio Leonardi ci ricorda infatti come “la maggior parte degli studenti che avrebbero costituito la classe dirigente dell’impero inglese frequentava Classics”. E ciò significava, come ebbe a scrivere José Ortega y Gasset, andare a “passare alcuni anni ad Atene nel secolo di Pericle” e ciò li proiettava ”al di fuori di ogni tempo, dal momento che il secolo di Pericle è una data irreale, una data immaginaria, convenzionale ed esemplare” e “in questa Grecia irreale i giovani vengono educati alle forme essenziali del vivere, diventano capaci di adattarsi alle più diverse situazioni concrete, proprio in quanto non sono predestinati a nessuna in particolare”. Dopo un secolo circa di biologia post-darwiniana si è ben consapevoli, diceva sempre il grande pensatore spagnolo, “che un organismo molto differenziato, con una struttura adeguata ad un ambiente, resta indifeso se l’ambiente cambia, mentre un animale informe, senza organi, come l’ameba, ha il potere di crearsi in ogni situazione gli organi di cui ha bisogno”. La duttilità e la capacità di pensare ed agire in funzione del contesto che si è, di volta in volta, chiamati a fronteggiare, questa fu la virtù di chi guidò per almeno un secolo l’impero britannico. Tali virtù metamorfiche riusciva a darle un sistema pedagogico fondato sull’importanza dei modelli globali, specialmente se risalenti alle origini di una civiltà, e dunque per l’Occidente i modelli erano e sono quelli di Atene e della Grecia classica così come Roma e il suo impero. Esempi perennemente eloquenti e forieri di insegnamenti per il presente e di ammonimenti per il futuro.

Fu da questo humus accademico e culturale che emerse una figura come Arnold Toynbee, autore di uno dei libri “più vasti e controversi del secolo scorso”, ossia A Study of History, opera monumentale, che uscì in 12 volumi tra il 1934 e il 1961. Una storia comparata delle civiltà, di cui vengono esaminate le varie fasi secondo una morfologia che ricorda, ma solo in parte, il tentativo di affresco filosofico e storico di Oswald Spengler, forse più noto di Toynbee, anche più affascinante per certe intuizioni e gli ostentati toni profetici, ma meno strutturato e solido nelle proprie argomentazioni. Un autore, Toynbee, le cui teorie hanno agito sottotraccia negli studi delle relazioni internazionali tra la seconda metà del Novecento e l’inizio di questo terzo millennio così come nelle visioni e conseguenti scelte strategiche della grande potenza statunitense. Si pensi all’influenza che ha avuto su Henry Kissinger, che discusse nel 1950 ad Harvard una tesi di laurea dal titolo The Meaning of History: Reflections on Spengler, Toynbee and Kant. È grazie alla riflessione su questi autori, in particolare Toynbee, che Kissinger è giunto a non credere affatto al destino “speciale”, tanto meno “manifesto”, per l’America. A suo avviso, gli Stati Uniti erano e, oggi più che mai, sono una delle tante potenze imperiali che la Storia ha visto imporsi e declinare. L’unica risposta saggia ed efficace sarebbe quella di organizzare la pacifica coesistenza di una pluralità di imperi, un ordine multipolare che senza alterare troppo l’equilibrio internazionale complessivo assorba gli inevitabili cicli di ascesa e declino di qualsivoglia organismo geopolitico di grandi dimensioni. E come poi non ricordare il ritorno di alcune intuizioni di Toynbee nell’opera che suscitò grande clamore a metà anni Novanta e ancor maggiore ne ebbe dopo l’11 settembre 2011, ossia The Clash of Civilizations (il famigerato “scontro di civiltà”) di Samuel P. Huntington.

Toynbee, differente per molti versi da Spengler, si mostrò in sintonia con questi nel momento in cui tentò di fondare sul criterio dell’analogia una scienza della storia delle civiltà, uno strumento intellettuale mediante il quale poter non solo diagnosticare il passato ma anche prognosticare il futuro, o almeno avanzarne ipotesi robuste, a prova di facili confutazioni. Non solo. Leonardi attribuisce all’intera attività di Toynbee sia un’ansia faustiana sia una speranza profetica, una speranza che “si esprime nella profezia”, e che dunque molto deve all’amore nutrito nei confronti della propria patria e delle istituzioni che la governano, e presso cui prestò a lungo servizio sia nell’ambito del Foreign Office sia, soprattutto, del Royal Institute of International Affairs, voluto nel primo dopoguerra da Lionel Curtis, figura all’epoca molto influente sulla politica estera britannica. Presso il Royal Institute Toynbee lavorò per oltre trent’anni, divenendone in seguito anche il direttore dell’area studi. Come John Maynard Keynes, anche Toynbee fu un delegato britannico alla Conferenza di pace di Parigi, nel 1919, in qualità di esperto del Medioriente, e questa prima grande esperienza internazionale lo segnò profondamente.

Il saggio di Leonardi riesce a restituirci tutto il fascino di questo studioso che fu anche uomo d’azione, “una mescolanza fra un dandy di Wilde e un personaggio di Dickens”, perfetta incarnazione dell’epoca vittoriana nella quale nacque (a Londra, nel 1889) e crebbe, e da cui ricevette l’inconfondibile impronta educativa ed etica. Quel che lo differenzia nettamente da Spengler, e ci segnala come il lato dickensiano prevalse su quello del dandy wildiano, risiede nella convinzione che l’Occidente non sia affatto il museo delle civiltà scomparse, bensì l’esempio di come si possa giungere ad una convivenza tra civiltà vive e vegete all’interno di un Commonwealth mondiale.

Ragionando con rigore filologico, combinato però ad una creatività filosofica che ricorre all’uso dell’analogia e opera comparazioni trans-croniche, Toynbee trasse dalla storia antica greco-romana lezioni di attualissima efficacia per ponderate e strategiche scelte di geopolitica. Come ricorda Leonardi, “le filosofie della storia e le storie universali ottocentesche si nutrivano ancora della convinzione che il resto del mondo dovesse confluire nelle categorie occidentali”. La comparazione diventa così un tentativo di porre sullo stesso piano, di considerazione politica e di metodo analitico più che di giudizio e di valore, le diverse civiltà che sono compresenti in una data epoca. Fine dell’eurocentrismo, insomma. All’indomani della cosiddetta Grande Guerra poteva sembrare una facile constatazione, ma non così scontata. Il dilemma che pareva essersi imposto al governo di Atene, ad un certo punto della sua storia, era lo stesso che tormentava la grande potenza britannica ad inizio Novecento: coniugare libertà e impero.

Altra lezione appresa dallo studio dei classici è la considerazione di ogni civiltà “come un dramma”, nel senso che dai greci si può apprendere il senso tragico della vita individuale e collettiva, dunque anche delle civiltà, contrassegnate tutte da una inevitabile finitezza. Non solo: si può imparare a riconoscere nella situazione di maggior successo di una civiltà il momento di massimo pericolo. Massima egemonia, massimo pericolo. Al pari dell’eroe tragico, la civiltà che si impone tramite l’impero pecca di hybris e l’ebbrezza acceca la lucidità dell’analisi delle élites imperiali, ponendo le premesse dell’autodistruzione. La hybris è una “pretesa smisurata”, l’“incoscienza dei limiti”, che ha nella guerra la sua espressione più eloquente. Nel momento in cui non ha più nemici fuori dai confini, Roma vede esplodere i conflitti al proprio interno. Come scrive Leonardi: “più vasto è l’impero romano, più lunghe sono le sue guerre civili”. Una sorta di nemesi della vittoria, lezione che sempre la sapienza tragica ci ha tramandato. Senza dimenticare quanto sia evidente in Toynbee “il tentativo di interpretare la crisi romana tramite quella occidentale”, e lo stesso dicasi per le vicende di Atene e Sparta, resta comunque valido e politicamente spendibile l’insegnamento di quella storia così remota: “l’impero è sempre una necessità tragica ed è l’ultimo stadio delle civiltà”. Di più, aggiunge Leonardi: “come la guerra è l’idolo dell’uomo, l’impero è l’idolo della civiltà”.

 

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