di Carlo Pulsoni
Ho salutato con soddisfazione la recente sentenza del Tribunale di Modena che condanna degli attivisti “No Vax” per procurato allarme avendo affisso cartelloni contenenti informazioni false. Ritengo infatti, alla stregua del medico e divulgatore scientifico Roberto Burioni, che “la scienza non può essere democratica” e che non tutte le opinioni hanno la stessa dignità.
Questa condanna ha avuto anche il merito di riaccendere il dibattito sulle “fake news” che si propagano nella rete: se possono definirsi “innocue” quelle relative al calciomercato, di cui ha dato conto in un divertente pezzo Riccardo Maccioni (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/se-la-bufala-scende-in-campo), ben più serie si rivelano quelle relative alla politica e ai suoi protagonisti, a volte responsabili di cariche istituzionali. L’anno scorso un filologo romanzo, Claudio Lagomarsini, ha perfino scritto un articolo sull’importanza della filologia nello smascherare le “bufale”, a partire dall’episodio che vide coinvolto l’allora Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, sul Referendum costituzionale del 4 dicembre 2017 (https://www.ilpost.it/2017/01/04/post-verita-filologia/).
Ma siamo sicuri che il problema delle “fake news” riguardi solo la rete? Mi limito a menzionare un unico caso: il presunto attacco chimico a Douma del 7 aprile 2017. Tutti i governi occidentali hanno preso per buone le “certezze” americane sull’attacco e sul suo mandante, per ben ovvie ragioni geopolitiche (inutile affrontare in questa sede il tema della “verità” di stato che può confliggere con la verità fattuale). Ma i media tradizionali, che dovrebbero prescindere da tali motivazioni applicando loro stessi criteri “filologici” di analisi delle fonti, si sono a loro volta allineati alla vulgata. Non sono in grado di affermare se lo abbiano fatto inconsapevolmente o in maniera dolosa. Certo è che chiunque avesse dubitato della narrazione corrente veniva additato come un agente al soldo di Putin o più semplicemente un demente, vista l’evidenza dei fatti presentati dal cosiddetto “mainstream”.
Perché concentrarsi dunque solo sulla rete come unico luogo nel quale possono nascere verità distorte e/o appositamente modificate? I media tradizionali non possono provocare altrettanti danni? Ricordo che nella mia adolescenza la “verità” si identificava con la notizia ascoltata in TV (“l’hanno detto al Telegiornale”). La discussione è aperta.
*Università di Perugia
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