di Fabio Polese
Molte sono le pagine del nostro passato nazionale ignorate per distrazione da parte degli «addetti ai lavori», o di proposito, perché ritenute imbarazzanti dalle vestali di una certa vulgata, per cui il bene e il male sono sempre nettamente separabili e certe realtà è meglio tenerle nascoste. Di questa concezione parziale della storia non è vittima Stefano Fabei, autore, tra l’altro, del recente volume Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944) [Mursia, Milano, 2013, pagg. 366, euro 22].
Il saggio di Fabei ricostruisce le tappe dell’attività politico-sindacale di un operaio delle Acciaierie «TERNI»: Maceo Carloni. Di formazione mazziniana, questi fu un sindacalista che per 15 anni si trovò a capo dei metallurgici ternani, ricoprendo vari incarichi e svolgendo missioni importanti a livello locale e nazionale; per il prestigio di cui godeva presso le maestranze, fu eliminato dai partigiani della brigata garibaldina «Gramsci».
Oltre alla vicenda di Carloni, il libro ricostruisce in modo dettagliato la storia del fascismo nella «Manchester d’Italia», in cui lo Stato fu istituzione politica e imprenditore, dalle origini del movimento mussoliniano alla Repubblica sociale. L’autore illustra, sulla base di una vasta documentazione attinta presso molti archivi, come nel corso del ventennio il regime, messa l’industria sotto l’ala protettrice del capitalismo statale, abbia offerto ai lavoratori occupazione e assistenza, attraverso l’inquadramento nella organizzazione sindacale-corporativa. Al contempo, il volume mette in evidenza come, facendo ruotare tutto attorno alla «fabbrica totale», la città umbra dell’acciaio e delle armi sia stata un piccolo laboratorio dove si rifletté la politica sociale del fascismo. Questa prerogativa, durante il periodo di Salò, riuscì a garantire l’amministrazione ordinaria, facendo funzionare tutte le istituzioni sociali e assistenziali create dal regime, a contenere le pretese naziste e a bloccare la guerra civile in città, relegando le attività resistenziali ai territori periferici.
Oltre ai capitoli riguardanti il sindacalismo fascista e le sue origini, il corporativismo e l’Opera Nazionale Dopolavoro, che ebbe un ruolo di primaria importanza nella conquista del consenso, la seconda parte del saggio affronta un tema destinato forse a suscitare polemiche: quello riguardante le elezioni – nel 1944, momento in cui Terni era parte della RSI – delle commissioni di fabbrica, che videro eletti accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblichine, anche anarchici, socialisti e comunisti: da quelle commissioni, nel dopoguerra, sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dalla CGIL.
L’autore spiega le ragioni per cui elementi di sinistra accettarono di parteciparvi, ragioni comprensibili tenendo conto del contesto di allora: la disorganizzazione dei comunisti e lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, la volontà di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, delle iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai «compagni» occupati negli stabilimenti e nei cantieri, giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni elette: qualche loro elemento doveva entrarne a fare parte per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti «su un terreno antitedesco», e collegarle al «comitato di partito dell’officina». Pertanto, quando il 1° marzo 1944, a Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l’assenso dei sindacati fascisti, elementi di sinistra, non solo comunisti, ma anche socialisti e anarchici. I loro obiettivi erano di opporsi all’asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e di inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.
Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell’imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione, essi ne avrebbero rivendicato il diritto: «Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie…». Un implicito riconoscimento del fatto che anche l’odiata dittatura aveva fatto qualcosa di efficace per i lavoratori. Il consenso goduto anche a Terni dal fascismo aveva ridotto ai minimi termini l’opposizione, la quale nel 1944 si preparava a inserirsi nelle istituzioni sociali e assistenziali che, realizzate dal regime, sarebbero a esso sopravvissute.
Se certi storici hanno finora voluto ignorare o minimizzare questa scelta, a Fabei va il merito di averla fatta conoscere, apportando un ulteriore tassello al mosaico della nostra storia nazionale, caratterizzata, sempre, dalla presenza di uomini in buona fede, opportunisti e trasformisti.
Per quanto imbarazzante, anche la storia delle scelte operate in quel contesto dagli antifascisti, andava scritta.
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