di Alessandro Campi
Le dichiarazioni recenti di Roberto Fico – sul caso Regeni e sul contenuto del decreto sicurezza fortemente voluto dalla Lega di Salvini – hanno rilanciato le polemiche sull’eccesso di attivismo politico dei Presidenti delle Camere (a partire da quella dei Deputati) e sul rischio che le loro prese di posizione debordino i doveri istituzionali legati alla carica (a partire da quelli riconducibili alla riservatezza, alla neutralità rispetto alla contesa tra partiti, all’imparzialità).
Dovrebbero essere, come suole dirsi, i garanti del processo legislativo. Dovrebbero occuparsi, regolamenti alla mano, del buon funzionamento della complessa macchina parlamentare. Ma troppo spesso si sono trasformati, soprattutto nel corso delle ultime quattro-cinque legislature, in attori politici. Tanto incisivi, vista l’eco mediatica garantita ad ogni loro parola dalla tribuna che occupano, quanto inevitabilmente solitari. Capaci persino di entrare in urto con la maggioranza politica-parlamentare che li aveva espressi.
Questo cambio informale di ruolo e funzioni naturalmente non è dipeso dalla cattiva volontà dei singoli. Va piuttosto inserito nel più generale (e radicale) cambiamento che ha investito la vita politica italiana con la fine della tradizionale “repubblica dei partiti”. Dal 1994 in avanti sono semplicemente venute meno prassi, regole e consuetudini decennali. E si sono introdotte pratiche e norme di comportamento che hanno finito per influire – non sempre in modo positivo – anche sul funzionamento delle nostre più radicate istituzioni democratiche.
Viene però da chiedersi se non esista un limite superato il quale chi occupa un ruolo istituzionale rischia non tanto di eccedere le sue prerogative e competenze (nella democrazia italiana questo pare non sia più un problema per nessuno) quanto di alterare l’equilibrio tra poteri che è alla base di ogni democrazia. Oltre a minare la credibilità e la legittimità dell’istituzione che momentaneamente occupa.
Prendiamo ad esempio la decisione del Presidente della Camera Roberto Fico di interrompere ogni rapporto con il Parlamento dell’Egitto sino a che quel Paese non farà piena luce sull’uccisione di Giulio Regeni.
Una scelta forte, dettata persino da nobili ragioni ideali e da un apprezzabile sentimento di giustizia, che molti italiani condividono, ma a dir poco avventata (e forse persino controproducente). Su una vicenda così controversa, avendo dinnanzi un interlocutore che propriamente non brilla per trasparenza e spirito democratico, ci si dovrebbe muovere, certo con fermezza assoluta, pretendendo verità, giustizia e rispetto, ma soprattutto con una voce sola: quella appunto dell’Italia al suo massimo livello istituzionale. Cosa spera di ottenere Fico con la sua iniziativa solitaria che non possa eventualmente ottenere il governo in carica con il suo pressing politico-diplomatico (formale e informale)?
Si comprende come le sue parole abbiamo colto di sorpresa e irritato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, reduce da un incontro (lo scorso 12 novembre a Palermo, durante la conferenza sulla Libia) con il presidente egiziano Al-Sisi, al quale è stato nuovamente richiesto di operare ogni sforzo perché si arrivi all’accertamento delle verità. E abbiano costretto la Farnesina ad emettere una nota nella quale se da un lato si ribadisce che “la ricerca della verità sulla barbara uccisione di Giulio Regeni resta prioritaria nel quadro dei rapporti dell’Italia”, dall’altro non si accenna nemmeno lontanamente alla possibilità di una rottura ufficiale delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Se quella di Fico voleva essere una prova di forza nei confronti dell’Egitto, per spingerlo a cambiare atteggiamento, l’effetto agli occhi di quest’ultimo è stato esattamente un altro: quello di un Paese nel quale i diversi livelli istituzionali vanno ognuno per conto proprio e nel quale manca, su un dossier così delicato, un indirizzo politico unitario e condiviso.
Quante alle ragioni di questa sortita, al netto delle belle parole sulla giustizia postuma da assicurare a Giulio Regeni e ai suoi famigliari (peraltro certamente sincere), non ci si può nascondere che esse abbiano una motivazione politica interna, con riferimento al ruolo che Roberto Fico ha deciso di giocare nei confronti dell’attuale maggioranza di governo nel suo stesso partito: al tempo stesso di coscienza critica, di capo-corrente e di oppositore.
Anche in questo caso, nulla che non si sia già visto. Al loro tempo come Presidenti di Montecitorio, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini fecero esattamente la stessa cosa. La battuta che circola sempre, secondo cui utilizzare la Presidenza della Camera per scopi politici non porta bene sul piano della carriera personale, lascia il tempo che trova dal momento che il vero problema è un altro: non le fortune individuali di questo o quel Presidente, ma gli effetti e le conseguenze che si producono allorché una carica istituzionale, per perseguire un suo disegno, entra impropriamente nella dialettica tra le forze politiche.
Roberto Fico è notoriamente il capofila dell’ala movimentista del M5S. Chi, come lui, da sempre guarda con simpatia ai centri sociali e all’area politica cosiddetta dell’antagonismo è comprensibile che stia vivendo con estremo disagio l’attuale alleanza del suo partito con la Lega (alleanza grazie alla quale è stato peraltro eletto nella carica che attualmente occupa). Ma un conto è non condividere certe scelte di governo, come ad esempio quelle che hanno portato al varo del decreto sicurezza (e comunque è discutibile che un Presidente faccia sapere che la sua assenza al momento del voto era un segnale politico di dissidenza). Un altro è dare l’impressione di star lavorando per scalzare o mettere in difficoltà chi, all’interno del M5S, è il garante e il principale sostenitore, per ragioni di realismo politico, dell’attuale “contratto di governo”: vale a dire Luigi Di Maio.
Il quale, proprio per non dare a Fico la possibilità di intestarsi la rappresentanza dell’ala ortodossa del Movimento, ha subito ripreso le sue parole di critica all’Egitto sul caso Regeni esasperandole ancora di più, sino a far balenare una rottura dei rapporti tra i due Paesi, non solo sul piano delle relazioni politico-diplomatiche, ma anche sul piano economico. Una posizione sconsiderata, visti gli interessi che l’Italia ha in quell’area del mondo (attraverso in particolare l’Eni), ma rivelatrice soprattutto della situazione politica a dir poco intricata che la presa di posizione del Presidente della Camera ha prodotto.
Da un lato, sono certamente venute a galla le paure e le ansie di Luigi Di Maio, che evidentemente si sente sotto pressione da parte di settori consistenti del suo partito che gli imputano un eccesso di pragmatismo, rispetto agli originari ideali di lotta del M5s, e una certa arrendevolezza nei confronti di Salvini. Dall’altro, proprio il gioco al rialzo di Di Maio dimostra quanto sia pericoloso utilizzare la politica estera come tema su cui darsi battaglia tra correnti o fazioni: pericoloso non per gli equilibri interni di un partito, ma per l’Italia.
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