di Leonardo Varasano
All’inizio – sarà forse per i suggestivi richiami, simbolici e verbali, ai Vespri siciliani del XIII secolo e ai Fasci dei lavoratori della fine dell’Ottocento – il movimento siciliano “dei forconi” ha suscitato curiosità e simpatia. Sì, simpatia: per una protesta motivata e condivisibile. Ben presto, però, l’azione degli “indignati dei forconi” ha cominciato a destare apprensione e timori diffusi. Per le possibili infiltrazioni mafiose, innanzitutto. Per presunte manipolazioni eversive da parte di gruppi di estrema destra. Per il contagio che si va producendo un po’ in tutta Italia, per le strade bloccate, per i rifornimenti difficili e per gli scaffali dei supermercati semivuoti.
Al di là del pericolo mafioso – invocato ogniqualvolta si parla di Sicilia – e del richiamo ad una fumosa minaccia neofascista, la preoccupazione maggiore dovrebbe riguardare, a ben vedere, le ragioni che sono alla base della protesta: l’indigenza e la disperazione prodotte dalla crisi economica da un lato; il sempre più forte disgusto della politica dall’altro lato.
Benché guidato da un ex assessore socialista, il “movimento dei forconi” – e con lui i suoi cloni – indirizza infatti la propria contestazione contro la politica. Contro tutta la politica, nazionale e internazionale. Non viene risparmiato nessuno: né l’ex sindaco di Palermo, Cammarata, né Sarkozy, né Roma né Bruxelles, né la Regione né il Parlamento. Gli slogan – grossolani, truculenti, inneggianti alla rivoluzione – non lasciano dubbi: l’obiettivo sono “i politici che rubano a doppie mani”; la classe politica, sostengono gli “indignati dei forconi”, va mandata a morte come i siciliani fecero con i francesi nel 1282.
La protesta siciliana, con i suoi effetti imprevedibili, è in fondo figlia non della critica alla partitocrazia, cara a Giuseppe Maranini, ma di una sistematica e generalizzata delegittimazione della politica. Una delegittimazione fondata – come dimostrano i tanti, troppi casi di corruzione e, più in generale, di inadeguatezza alla gestione della res publica -, ma talvolta eccessiva e perfino pericolosa. Eccessiva per almeno tre motivi. Innanzitutto perché condannare la classe politica tout court, senza distinzioni, significa non tener conto di chi ancora, e forse non sono così pochi, s’interessa del bene comune con impegno, passione e onestà, vivendo “per politica”, come scriveva Max Weber, e non “di politica”. In secondo luogo perché non esiste solo “la” casta dei politici, ma esistono purtroppo tante caste, a partire da quella invisibile, inamovibile “super casta”, come l’ha definita giorni fa Galli della Loggia, di oligarchi che “gestiscono quote enormi di potere”, di dirigenti, funzionari, comandanti dei vigili urbani (!) e alti burocrati che guadagnano molto più di qualsiasi eletto. In terzo luogo, l’indiscriminata delegittimazione della politica è eccessiva perché non tiene conto del fatto che i partiti – così come i sindacati ed altri corpi intermedi – sono strumenti essenziali della democrazia: non è un caso, scriveva Gabriele De Rosa in un importante volume sulla politica italiana, che la storia dei partiti e la storia contemporanea siano l’una il necessario completamento dell’altra. Un conto è chiedere, insieme alla riduzione di sprechi e privilegi, un doveroso rinnovamento della classe politica – senza dimenticare che “la” casta è pur sempre lo specchio del Paese reale -; un altro conto è tendere a sradicare regole ed elementi nevralgici della vita civile.
Incrementare la retorica anticasta – divenuta ormai uno stile giornalistico a sé, in certi casi decisamente redditizio – può inoltre essere rischioso. La contestazione inscenata dal “movimento dei forconi” può diventare la scintilla di un incendio più vasto. L’antipolitica – nelle forme dell’antiparlamentarismo, dell’antipartitismo o della lotta anticasta – può essere pericolosa, può favorire tensioni ed iniziative non sempre democratiche. Nella storia italiana la delegittimazione dei politici e delle istituzioni ha già contribuito al fascismo e al Sessantotto. Meglio non alimentarla.
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