di Michele Marchi
Voto strano, ma ricco di importanza quello legislativo del 10-17 giugno in Francia. Dopo il ritorno dei socialisti all’Eliseo del 6 maggio scorso, affinché l’esecutivo diarchico della V Repubblica funzioni, ad Hollande serve una chiara maggioranza all’Assemblea Nazionale. La storia politica dal 1958 ad oggi gioca a favore delle possibilità socialiste. Infatti solo nel 1988, e in larga parte grazie ad un ambiguo richiamo del rieletto Mitterrand a non concentrare troppi poteri proprio nelle mani dell’allora strapotente PS, dopo l’elezione presidenziale non si è avuta una netta affermazione del partito che aveva conquistato l’Eliseo. È accaduto invece con la “marea rosa” del 1981, qualcosa di simile si è verificato nel 2002 dopo la vittoria di Chirac e nel 2007 dopo quella di Sarkozy. Peraltro con la riduzione da sette a cinque anni del mandato presidenziale, il rischio di coabitazione dovrebbe essere piuttosto remoto.
Eppure il voto di domenica (primo turno, al quale seguirà il secondo del 17 giugno) nasconde alcune incognite che potrebbero incidere sull’evoluzione di medio periodo della politica francese, almeno quanto di quella europea, considerato l’attivismo di Hollande nell’affrontare la crisi dell’area euro.
Se si tratterà di elezioni di ratifica o di rettifica dipenderà dai risultati dei due partiti che strutturano il sistema bipolare (per alcuni bipartitico) perlomeno dal 1981 ad oggi. Per ragioni diverse, UMP e PS devono affrontare alcune criticità.
Da un lato l’UMP è orfano del suo leader di riferimento, colui che lo ha plasmato e condotto alla doppia vittoria del 2007 e alla “sconfitta onorevole” del maggio 2012. Ma in questa fase l’assenza di Sarkozy pesa in particolare perché lascia campo libero allo scontro tra i suoi due potenziali successori, l’ex Primo ministro François Fillon e il segretario generale Jean-François Copé. Solo in autunno si saprà chi dei due guiderà la ricostruzione della destra post-gollista. Al momento l’UMP paga questo scontro tra leader con l’assenza di una vera proposta elettorale e la contemporanea incapacità di strutturare una coerente opposizione al PS. Un secondo dato da non trascurare, sempre riguardante l’UMP, è il paradosso di essere sempre più egemonico a destra (Modem e Nouveau Centre rischiano infatti di scomparire dopo il voto legislativo), ma contemporaneamente disarmato di fronte ai possibili danni provenienti dall’estrema destra. Anche con il 40% circa di astensioni (il dato previsto oscilla tra il 35 e il 40%), se il FN riuscirà ad ottenere il 15% dovrebbe garantirsi la presenza al secondo turno in oltre cento circoscrizioni. In settanta di queste il triangolare quasi certamente risulterà perdente per l’UMP. Dunque la riflessione ideologica e riguardante l’evoluzione della cultura politica post-gollista occuperà senza dubbio il dibattito congressuale. Al momento l’UMP deve sperare di scongiurare un nuovo 1997, quando la presenza di un candidato FN in 132 circoscrizioni al secondo turno (con ben 76 triangolari, 31 duelli a destra e 26 a sinistra) aveva di fatto consegnato la vittoria al PS.
Se si passa al fronte socialista, anche qui non mancano le incognite. Il neo costituito governo Ayrault ha fatto grande attenzione nel non creare possibili motivi di frizione in questo primo mese di vita. Per ottenere i 289 seggi che garantirebbero al PS la maggioranza assoluta serve un exploit rispetto al 2007 (allora i socialisti si erano fermati a 186 seggi). Insomma è senza dubbio vero che dopo le legislative del 2007, se si eccettuano le europee del 2009, il PS ha dominato tutti gli scrutini (regionali, cantonali e presidenziali), ma l’attuale situazione parla di una vittoria quasi certa, ma senza sfondare. Una maggioranza solo relativa implica per forza di cose la necessità di doversi rivolgere agli alleati. Ecologisti e Front de gauche, per ragioni diverse, pongono non pochi interrogativi. Con uno strano accordo stipulato mesi prima del voto presidenziale, il PS ha garantito ai Verdi oltre 60 circoscrizioni delle quali la metà abbastanza facili: una sorta di regalo, considerato il pessimo risultato di Eva Joly alle presidenziali. La seconda incognita è costituita dal risultato del Front de gauche. In questo caso il PS non ha stipulato accordi e tutto è stato lasciato al dopo primo turno. Certamente il quadro muterebbe in maniera sostanziale se nella nuova Assemblea nazionale dovesse strutturarsi una maggioranza sulla falsariga della gauche plurielle del 1997, magari con gli ecologisti deboli e il Front de gauche di Mélenchon particolarmente forte.
Hollande ha una chiara consapevolezza di queste incognite, anche perché è conscio di quanto la sua vittoria del 6 maggio nasconda non poche debolezze. Una chiave per comprendere il voto legislativo del 10-17 giugno è proprio quella di fermarsi a riflettere sul recente voto presidenziale.
Si è trattato di uno scrutinio di crisi, nel senso che solo un quarto dei francesi ha votato convinto che la situazione del Paese sia destinata a migliorare nell’immeditato futuro.
Si è trattato di un voto contro, piuttosto che di un’elezione di adesione. Da questo punto di vista il voto del 2012 è assimilabile a quello del 1981. La maggioranza dei francesi che ha scelto Hollande lo ha fatto per “dimissionare” Sarkozy, così come nel 1981 aveva scelto Mitterrand per liberarsi di Giscard.
Infine Hollande è consapevole che la Francia che lo ha “incoronato” secondo “monarca repubblicano” socialista della V Repubblica, resta un Paese fondamentalmente di destra, nel quale anche i più recenti sondaggi attribuiscono all’intero spettro della destra, dall’UMP sino al FN, ben oltre il 50% dei voti al primo turno delle legislative. Il carattere non coalizzabile del FN e il sistema elettorale a doppio turno potranno garantire un successo di seggi quasi certo al PS. All’Eliseo il “presidente normale” è però consapevole di quale distanza intercorra tra conquistare una maggioranza e governare un Paese.
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