di Michele Marchi
Dopo il secondo turno delle legislative il “presidente normale” ha a sua disposizione una “ipermaggioranza”. Il “terzo” e “quarto” turno delle elezioni presidenziali hanno confermato che il Paese non ritiene la coabitazione uno strumento idoneo di riequilibrio del potere ai vertici dello Stato. Il Presidente, nel semipresidenzialismo francese, necessita di una solida maggioranza per governare e questa è arrivata.
Il primo elemento decisivo del voto del 17 giugno è senza dubbio la maggioranza assoluta ottenuta dal PS. Trecento seggi sono undici in più di quelli necessari per raggiungerla. Se vi si aggiungono poi una decina di eletti del Mouvement républicain et citoyen e una manciata del Parti radical de gauche si raggiunge la quota di 314. Una maggioranza solida, che non necessita né del sostegno degli ecologisti (con 18 eletti potranno formare un gruppo parlamentare), né soprattutto del Front de gauche. Non solo Mélenchon ha fallito personalmente (già sconfitto al primo turno), ma con lui sono andati a fondo molti dei feudi storici del PCF, che passa in cinque anni da 16 a 9 eletti. In questo caso è a rischio la formazione del gruppo all’Assemblea nazionale.
Il secondo dato riguarda l’indubbia, e preventivata, sconfitta dell’UMP, che perde un centinaio di seggi rispetto al 2007 e oggi si ferma a 229. Il compito del partito era veramente proibitivo, in particolare nel momento in cui ci si è resi conto che il tema forte della campagna presidenziale, cioè l’antisarkozismo, sarebbe stato determinante anche per le legislative. A questo punto partirà la corsa per la guida del partito, che culminerà nel congresso di novembre, nello scontro tra J.-F. Copé (attuale segretario) e F. Fillon (l’ex primo Ministro di Sarkozy).
Terzo dato da non trascurare l’insuccesso del FN. Se dopo il primo turno presidenziale si era parlato di sfondamento a destra, dopo il primo turno delle legislative il FN si era fermato poco sotto il 14%. Ma è dal ballottaggio che il Front esce sconfitto. I triangolari dovevano essere un centinaio, mentre sono stati solo una trentina, nulla insomma a che vedere con il 1997. Gli eletti sono due e tra questi anche la nipote ventiduenne di Jean-Marie Le Pen, ma non Marine Le Pen. È certamente vero che se la destra repubblicana vorrà tornare a guidare il Paese dovrà trovare un modo per riconquistare il voto di estrema destra. Ma allo stesso modo se il FN vorrà passare da soggetto “guastatore” a destra, a forza politica in grado di assumersi responsabilità di governo, qualcosa dovrà mutare nella sua dottrina almeno quanto nella sua strategia.
Infine un ultimo dato riguarda le esclusioni eccellenti di questo secondo turno. A sinistra come a destra e al centro, non mancano certo i casi. Nel PS la più clamorosa riguarda Ségolène Royal, paracadutata dal partito nel complicato collegio di La Rochelle, l’ex candidata alla presidenza del 2007 è stata sconfitta da un dissidente del PS. La “fedele” Ségolène, che aveva sostenuto l’ex compagno nella corsa all’Eliseo, avrebbe dovuto ottenere in cambio un collegio certo e una probabile elezione alla presidenza dell’Assemblea Nazionale. Un partito un po’ distratto e una première dame intenta a sostenere il dissidente Falorni via twitter, hanno contribuito non poco alla “morte politica” di Royal. Tra le sconfitte eccellenti a destra spicca quella di Claude Guéant, ex prefetto, segretario generale all’Eliseo e fedelissimo di Sarkozy, dal 2011 promosso al ministero dell’Interno. La sua candidatura nell’Hauts-de-Seine era stata una sorta di premio per la fedeltà nei confronti dell’ex Presidente. Anche in questo caso la sconfitta è giunta per mano di un dissidente UMP, a dimostrazione di quanto scarsa fosse la presa di Guéant all’interno della destra repubblicana. Infine attesa, ma significativa, è stata la sconfitta di Bayrou, schiacciato in un triangolare da PS e UMP, a dimostrazione della difficoltà del centrismo nell’evoluzione bipartitica del sistema. Con la debacle di Bayrou tramonta l’ipotesi Modem e il centrismo, saldo e multiforme (le tradizioni politiche radicale, democratico-cristiana e liberal-giscardiana sono comunque presenti), dovrà ripensare la sua collocazione e soprattutto abbandonare l’ipotesi di scardinare il bipolarismo.
Dunque la Francia del giugno 2012 vede una storica concentrazione di potere nelle mani di un uomo e di un partito. Si verifica qualcosa di mai accaduto, non nel 1959, quando de Gaulle si trovò a fare i conti con un Senato pieno dei leader di sinistra esclusi dall’Assemblea Nazionale, e non nel 1981, con Mitterrand che non poteva contare sulla maggioranza al Senato e su quella che oggi il PS può vantare anche a livello regionale e dipartimentale. Ci sono ragioni politiche ed istituzionali per spiegare l’attuale situazione. Politicamente la sconfitta della destra affonda le sue radici nella sua progressiva perdita dei legami territoriali, dimostrata dalle costanti sconfitte nelle elezioni amministrative degli ultimi anni. Per quanto riguarda l’evoluzione istituzionale, il passaggio al quinquennato ha oramai sancito il dominio dell’elezione presidenziale, che finisce per determinare tutte le scelte elettorali successive.
Per quale motivo allora Hollande e con lui Aubry ed Ayrault continuano a predicare la calma e sottolineare il carattere “normale” della presidenza?
Prima di tutto perché Hollande sa di avere bisogno di tempo per riuscire a dispiegare almeno alcune delle promesse del suo programma. E’ consapevole di non poter sbagliare, avendo tutti gli strumenti possibili a sua disposizione, ma sa che il suo operato dipenderà molto da eventi esterni, europei. La sua azione si dovrà dispiegare lungo un doppio binario. Da un lato dovrà cercare di riformare il modello socio-economico francese, rifondandolo su un nuovo patto sociale. Dall’altro però dovrà dimostrare all’Europa, e in particolare alla Germania, che un’uscita dalla crisi fondata su rigore e crescita non è utopia.
In secondo luogo Hollande è conscio del carattere distorsivo di questo voto legislativo. Così come è consapevole che la sua elezione deve molto all’ottimo risultato di Marine Le Pen al primo turno e allo scarso travaso di voti dall’estrema destra alla destra repubblicana, allo stesso modo non può aver trascurato il 45% di astensionismo di questo secondo turno legislativo. La sua è una maggioranza assoluta, ma ottenuta dal voto di circa ¼ dell’elettorato. Una larga parte dei cittadini francesi è disillusa, non crede nella possibilità che la politica possa cambiare, in meglio, le proprie vite. C’è molta distanza, insomma, tra il changer la vie mitterrandiano del 1981, e il complicato compito del “presidente normale”.
Hollande ha vinto la sua prima sfida, quella del suo azzeccato slogan “il cambiamento è adesso” (le changement c’est maintenant). Con i “pieni poteri” oramai ottenuti, si può affermare “la difficoltà, è adesso”.
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