di Francesca Varasano
In una tiepida sera di fine estate, a Tokyo i turisti si muovono fra i viali affollati, gli alti edifici luminosi e i grandi magazzini del quartiere Ginza. Più ad ovest, nel quartiere Rappongi, chi esce dall’ufficio si dimentica della giornata di lavoro in una izakaya, ritrovo tradizionale per bere sake e fare uno spuntino, o si lascia tentare dai PR che sui marciapiedi fanno pubblicità ai locali della zona. Ad Harajuku, affascinanti ragazze in kimono passeggiano a fianco di altre ragazze travestite da scolare fra i negozi vintage che propongono abiti in seta di Yoji Yamamoto o creazioni Comme des Garçons di seconda mano.
Il traffico è forse sorprendentemente poco denso; le biciclette parcheggiate ai lati delle strade – strade in cui non si beve, nè si mangia, nè tantomeno si fuma – sono moltissime, per lo più lasciate senza catena, magari con un ombrello appoggiato al manubrio o una busta dimenticata che nessuno prenderà. Fiumi di persone si riversano in maniera ordinata e silenziosa nelle stazioni della metropolitana che copre la città in modo capillare. Quando le porte del vagone si aprono, l’immagine offerta è ben diversa da quella di altre grandi capitali moderne: non c’è traccia di Londra o Parigi multietniche e cosmopolite, incontro di colori, culture e lingue. La quintessenza della metropolitana di Tokyo è all’apparenza uniformamente giapponese.
Anche nel XXI secolo globalizzato, la società nipponica si presenta a un primo sguardo etnicamente compatta e priva di alcuni dei contrasti sociali e religiosi che caratterizzano altre nazioni moderne, lontana dai dibattiti e dalle manifestazioni che periodicamente accendono la dialettica politica contemporanea occidentale. Tradizionalmente, su questo argomento la letteratura scientifica ha posto l’accento su ragioni storiche, religiose e politiche – dalle politiche repressive dell’era isolazionista Sakoku, che incentivarono i concetti di obbedienza alle autorità e responsabilità collettiva; dai precetti buddisti e shintoisti alla rigida legislazione in materia di visti e immigrazione.
Tuttavia, sarebbe superficiale pensare che in Giappone non siano presenti minoranze etniche e linguistiche, gruppi sociali emarginati o difficoltà di integrazione: si tratta piuttosto di questioni vive e più che mai rilevanti, imprescindibili per un’analisi attenta del Sol Levante e persino cruciali per il futuro del paese.
Gli Ainu per esempio, popolazione nativa dell’isola di Hokkaido nel nord del Giappone, sono stati riconosciuti come minoranza etnica soltanto nel 2008; le politiche di assimilazione forzata erano finite nel 1997, anche grazie alle pressioni delle Nazioni Unite. Benchè oggi a Sapporo la cultura Ainu stia rifiorendo attraverso nuove consapevolezze e garanzie a difesa delle tradizioni locali, essa è stata fortemente segnata da un’assimilazione durata decenni, matrimoni forzati e discriminazioni linguistiche e religiose. La questione della lingua è sentita anche al sud del paese: nelle isole Ryukyu molte delle parlate locali stanno sparendo e sono incluse – come del resto l’Ainu – nella lista Unesco di lingue in pericolo, impoverite da politiche ostili e dalla diffusione di mezzi di comunicazione di massa in giapponese. Culturalmente ed etnicamente più vicine alle Filippine che a Tokyo, solo in tempi recenti le isole sono state interessate da progetti di rivitalizzazione linguistica e dialettale. Okinawa, l’isola più grande e sineddoche delle Ryukyu, ha tradizionalmente una relazione complessa se non ostile con il governo centrale: annessa con la forza da regno indipendente, oggetto di politiche di annullamento culturale e linguistico, teatro di battaglie sanguinose durante la seconda guerra mondiale, dal 1972 Okinawa ospita con riluttanza diverse basi americane. L’ostilità locale nei confronti delle basi è stata espressa sin dalla loro fondazione; recentemente, è esplosa con grandi manifestazioni di protesta a seguito di violenze perpetrate dall’esercito americano sulla popolazione locale e di un incidente che ha coinvolto un aereo militare, riaccendendo l’animosità verso Tokyo.
Se negli ultimi anni a Sapporo ed Okinawa si rivendicano identità e lingue locali, altri gruppi minoritari faticano ad ottenere riconoscimenti formali del proprio status e tutele giuridiche effettive.
Di etnia giapponese ma storicamente emarginati, i Burakumin rappresentano le vestigia del sistema di gerarchia sociale introdotto nell’epoca Edo, quando questo gruppo di intoccabili si dedicava ad attività legate alla morte e considerate impure nella dottrina buddista. Nonostante la discriminazione nei confronti dei Burakumin sia oggi formalmente proibita, fino a poco tempo fa era pratica diffusa accertarsi delle origini di un potenziale sposo o impiegato. Recentemente alcuni media hanno condotto ricerche su quartieri a prevalenza Burakumin, dando adito a nuova pressione sociale.
I coreani zainichi, cittadini giapponesi appunto di origine coreana, costituiscono il più nutrito gruppo straniero nel paese: il loro insediamento è originariamente legato alla conquista giapponese della Corea all’inizio del secolo scorso, attraverso deportazioni ed impiego forzato per le necessità delle politiche di guerra. In particolare, l’uso dell’esercito giapponese di “donne di conforto” coreane durante il secondo conflitto mondiale è ancora oggetto di contesa nel dibattito diplomatico bilaterale: lo scorso 17 settembre, il presidente coreano Park Geun-hye ha invitato il Giappone ha prendere “una decisione coraggiosa” e assumersi in modo ufficiale la responsabilità delle violenze perpetrate. La dichiarazione segue quelle recenti del Primo Ministro giapponese Shinzo Abe tese invece a minimizzare la portata degli eventi. Nel Giappone contemporaneo, i coreani zainichi spesso decidono di non rivelare la propria origine, anche adottando nomi giapponesi: quando non lo fanno, sono passibili di discriminazioni sociali o nel lavoro.
Benchè di etnia giapponese, neppure i Nikkejin – giapponesi espatriati – godono di un facile processo di integrazione al loro rientro in patria: l’esempio più noto è quello dei Nikkejin brasiliani, trasferitisi in America Latina a seguito di un trattato commerciale fra i due paesi, i cui discendenti tornarono in patria numerosi negli anni ’80 per trovare però difficoltà di inserimento nel tessuto sociale e lavorativo giapponese, anche a causa della scarsa padronanza linguistica. Del resto, nemmeno i figli di coppie miste sono stati tutelati in modo sistematico: soltanto nel 2008 una sentenza di portata storica della Corte Suprema giapponese ha stabilito il diritto alla cittadinanza anche per i figli di coppie miste non riconosciuti alla nascita.
Un dettagliato testo accademico di recente uscita, Critical issues in contemporary Japan (ed. Routledge), annovera la questione delle minoranze tra le più problematiche per il paese Sol Levante: “le minoranze continuano a languire ai margini della società, con pochi diritti civili e limitate prospettive di integrazione “, vi si legge.
Lo scorso 18 settembre, il Japan Times riportava la perdita di 180 miliardi di yen per Sony, gigante elettronico giapponese: la notizia non fa che confermare la tendenza di un’economia ormai lontana dalla crescita costante dei decenni passati, superata per forza e profitti dai paesi BRIC e dalle tigri asiatiche. Ma non è soltanto l’economia a preoccupare il Giappone: gli scandali sulla gestione del terremoto, tsunami e disastro nucleare di Fukushima nel 2011 hanno scalfito la fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni e incrinato l’ordine sociale. Anche le relazioni diplomatiche del paese sono negli ultimi tempi difficili – non solo con la già citata Corea del Sud, ma anche con la Russia e la Cina per dispute territoriali e persino con gli Stati Uniti sulla questione nucleare e le basi militari ad Okinawa.
Il governo di Shinzo Abe si trova ad affrontare sfide economiche e politiche di rilievo, esasperate da un tessuto sociale in rapido invecchiamento che tuttavia fatica a creare garanzie per la maternità di donne che lavorano, spesso anzi oggetto di discriminazione: l’auspicio è che nell’agenda delle riforme di una delle democrazie più avanzate del pianeta non tardi ad entrare un dibattito costruttivo sulla questione delle minoranze e gruppi sociali emarginati.
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