di Matteo Chiavarone

Negli ultimi anni si è parlato molto di stampa di regime, a volte a ragione ma il più delle volte a torto, esasperando un concetto che già all’interno della sua collocazione storica è difficilmente traducibile in maniera univoca.

Non è un caso che Pierlugi Allotti, giornalista e studioso apprezzato non solo in Italia, nel suo accurato saggio Giornalisti di regime – La stampa italiana tra fascismo e antifascismo (Carocci, 2012), si affretta a dare le giuste distinzioni tra, almeno, due generazioni di giornalisti che negli anni tra le due guerre mondiali hanno raccontato l’ascesa, lo sviluppo, l’apice e il crollo del potere mussoliniano: la prima, quella dei “padri”, nata intorno al 1890 e avviata alla “professione” prima del regime; la seconda, quella dei “fratelli maggiori”, nata intorno al 1910 e “avviata” sotto lo sguardo vigile di Mussolini, che guidava il paese già da quasi un decennio.

Da un lato quindi i Missiroli, gli Ansaldo, i Monelli, i Maratea; dall’altro i Goressio, i Montanelli, i Piovene, i Pannunzio, i Flaiano, i Brancati. Quest’ultimi sono stati quindi “giornalisti che sapevano che quello era il regime politico e volevano continuare a fare il giornalista”, persone cioè che vedono la politica come qualcosa di “ineluttabile” e, spesso, di “pauroso”.

Come non si può parlare di “fascismo” ma di “fascismi”, così è impensabile credere che possa esistere una stampa di regime, neanche se proviamo a dividerla da quella di opposizione. Nell’uno e nell’altro caso sono esistite ed esistono molte varabili perché nel rapporto tra giornalisti e dittatura vi è un vero e proprio problema storiografico.

Il lavoro di Allotti, ove possibile, prova a rispondere a domande quali: cosa scrivevano i “padri” e i “fratelli maggiori” durante il fascismo? Quando smisero di scrivere per la dittatura? Su quali posizioni politiche si collocarono nel dopoguerra? Come si svolse l’epurazione antifascista? Per quali ragioni fallì? E quali conseguenze ebbe questo fallimento?

L’indagine, a detta dell’autore, si sviluppa in tre parti: una di carattere introduttivo (la “rivoluzione” giornalistica messa in atto da Mussolini, con l’abolizione della libertà di stampa, le nuove leggi, la “fascistizzazione” dei maggiori quotidiani, la creazione di nuove strutture gerarchiche); un’altra che focalizza l’attenzione su ciò che fu effettivamente scritto in quegli anni (interessante il caso d Italo Zingarelli che rischiò il licenziamento scrivendo un articolo non gradito in occasione dell’Anschluss dell’Austria da parte della Germania nazista); un’ultima in cui si descrive il processo di “autoassoluzione” di quei giornalisti che voltarono le spalle al fascismo subito dopo il crollo del regime.

In questa carrellata di “protagonisti” e di “comparse” di un periodo storico cruciale – soprattutto per comprendere alcune deformazioni del concetto di libertà di stampa che hanno quantomeno “viziato” l’uso dei mezzi di comunicazione in un paese come il nostro – ne esce fuori un quadro a volte persino grottesco ma fin troppo generoso con alcuni di questi personaggi che, nonostante l’indubbio valore, si sono persino “compiaciuti di perdere la propria indipendenza”.

Sulle “pagine” più nere del ventennio, quelle che hanno lasciato alla storia le leggi razziali e la “sottomissione” al folle progetto nazista, sono state “scritte” altrettante “pagine” oscure, e non da uno sporadico gruppo di giornalisti: Ansaldo che inveisce ripetutamente contro “l’ebreo Morghentau”, Missiroli che applaude la bibbia dell’antisemitismo Contra Judaeos di Telesio Interlandi, Monelli che nella sua corrispondenza polacca si lancia in giudizi antiebraici (e antitetici ai pensieri mostrati precedentemente quando disse di non condividere la campagna antisemita).

Difficile dare un giudizio su un periodo storico così convulso e così arduo da comprendere, anche soltanto su un piano squisitamente umano. Quello che colpisce, ed è la parte forse più interessante del saggio, è quello che successe dopo. Dopo il regime, dopo Mussolini, dopo l’estate del 1943.

Se con l’avvento della dittatura si era passati dall’antifascismo militante all’accettazione pressoché totale del fascismo (naturalmente con numerosi distinguo) si procede ora, formando una vera e propria parabola, al processo inverso. Andata e ritorno, cancellando la destinazione originaria.

Certo in modi diversi: Monelli (incredulo nell’accettare la temporanea sospensione dal “Corriere della Sera”) lontano da Malaparte (capace di asservire e, contemporaneamente, deridere il duce dall’alto del suo profilo letterario ammirato nei salotti europei, per poi “sfruttare” quella materia nelle opere più importanti), lontano da Piovene e Montanelli (“il giornalista che più contribuì alla defascistizzazione del fascismo”), lontano infine da tutti coloro che riconquistarono spazio negli anni della “stampa libera”, confluiti, i più, in quell’ala moderata prossima alla Democrazia Cristiana.

Deformazioni culturali che forse danno ragione a Savinio quando affermava che “segno della ritornata libertà in Italia è la riapparizione dei giornali della notizia falsa”, perché se in fondo il vero torto della dittatura è “il principio di verità unica” si deve sapere che la verità umana “è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero”.

 

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