di Andrea Falconi
Il 20 gennaio scorso ha avuto inizio la fase operativa degli accordi sull’arricchimento dell’uranio iraniano, raggiunti durante il round negoziale di Ginevra tra la Repubblica islamica e i Paesi del 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) del mese precedente.
Secondo gli accordi, tale data segna l’inizio di una decorrenza semestrale durante la quale il regime di Teheran dovrà dare prova di collaborazione con le autorità dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), riguardante l’arresto dell’arricchimento del combustibile nucleare oltre il 5% e la riconversione in ossido di uranio di quello già arricchito al 20%, soglia utile per l’impiego per fini bellici. Inoltre, gli accordi prevedono forti limitazioni al funzionamento dei due impianti di Natanz e Fordow, nonché un aumento delle forme di controllo internazionali sul processo di produzione di combustibile nucleare.
In cambio, l’Iran beneficerà di un alleggerimento delle sanzioni economiche, vigenti dal 1979, nel settore dei propri asset bancari e legati al mercato petrolifero, per un valore di circa 5,2 miliardi di euro, e di maggiori margini di manovra in ambito industriale.
Il buon esito delle trattative di Ginevra sembra aver rassicurato la comunità internazionale riguardo ai timori, mai del tutto sedati, dell’imminente dotazione di armamento nucleare da parte dell’Iran. Allo stesso tempo, la notizia s’inserisce in un quadro generale in cui l’attenzione mondiale è completamente rivolta ai tentativi di mediazione nella crisi siriana, e ciò sembra aver contribuito a far passare in secondo piano le trattative tra Israele e gli Stati Uniti riguardo a una possibile operazione militare unilaterale di Tel Aviv per colpire i siti di arricchimento dell’uranio iraniani.
Nonostante ciò, diversi analisti hanno rilevato come gli accordi di Ginevra non affrontino il tema dell’arricchimento dell’uranio al livello del 3.5%, che di fatto tiene vivo lo sviluppo nucleare iraniano a bassa intensità e la conseguente possibilità del futuro arricchimento ad un livello adatto per fini bellici. Inoltre, tali accordi non coprono l’eventualità che l’Iran proceda alla costruzione di materiali utili agli impianti nucleari al di fuori dei siti stessi, per poi trasferirli in caso di necessità.
In sostanza, gli accordi di Ginevra si fondano su una manifestazione di fiducia verso Teheran, limitata a un periodo di sei mesi, utile a saggiare la disponibilità del regime di non procedere ad uno sviluppo nucleare con finalità belliche e di permettere un monitoraggio internazionale nel proprio Paese.
In ragione di ciò, su ogni giudizio relativo all’esito dei colloqui di Ginevra continua a pesare l’interrogativo circa l’effettiva volontà iraniana a rinunciare definitivamente al proprio programma nucleare militare. Soltanto un’analisi deduttiva delle necessità strategiche iraniane, corroborata da un’indagine sulle direttive dello sviluppo bellico iraniano, può dunque aiutare a comprendere la reale volontà di Teheran di impegnarsi in un chiaro processo di normalizzazione dei propri rapporti con parte della Comunità internazionale.
Innanzi tutto, bisogna rimarcare che, per motivi strategici, l’Iran non è intenzionato a procedere alla creazione di armamento nucleare per l’impiego tattico. Difatti, tale sistema d’arma è in dotazione di Paesi quali ad esempio il Pakistan (MRL – Multiple Rocket Launcher Hatf IX) con la finalità di scoraggiare eventuali invasioni terrestri, eventualità alla quale Islamabad sarebbe pronta a rispondere tramite una tattica di terra bruciata nel proprio territorio.
L’Iran non è sottoposto a tale tipo di minaccia, disponendo di confini terrestri relativamente sicuri, ma è impegnato in una partita strategica contro avversari distanti centinaia, o anche migliaia di chilometri, come Israele e le monarchie del Golfo.
Pertanto, un eventuale dispositivo nucleare iraniano dovrebbe disporre di vettori di lancio capaci di colpire con ragionevole precisione a notevole distanza, come i missili balistici.
Da oltre due decenni, quindi, l’Iran sta portando avanti un programma missilistico di medio raggio incentrato proprio sull’ampliamento delle capacità di carico bellico e della tecnologia delle testate.
L’attuale dotazione missilistica comprende soprattutto la serie di missili balistici Shahab, nelle versioni -1, -2 e -3, questi ultimi potenzialmente capaci di trasportare testate nucleari fin dalla scoperta della fornitura, da parte dello scienziato pachistano Abdul Qadeer Khan, di disegni di testate da applicare sugli Shahab 3 già nel 2006.
L’inizio del programma missilistico iraniano viene fatto risalire alla guerra con l’Iraq degli anni ’80. Durante quel conflitto l’Iran ha acquistato dalla Corea del Nord diversi Hwasong, copie dei missili sovietici Scud, e da quelli ha sviluppato una propria tecnologia inaugurando la produzione dei missili a corto raggio Shahab-1. Nonostante il nome comune delle categorie Shahab-1, -2 e -3, questi missili differiscono notevolmente in quasi tutte le caratteristiche tecniche fondamentali, quali ad esempio la gittata, il carico bellico e il sistema di guida. Il limite comune di questa tipologia di missili riguarda la propulsione a propellente liquido, la quale rallenta le procedure di lancio a diverse ore, oltre a renderne problematico lo stoccaggio, a causa dell’alta instabilità di tale combustibile.
Gli Shahab-1 sono missili a corto raggio (SRBM), varianti degli Hwasong-5/Scud-B comprati da Libia e Siria durante il conflitto con l’Iraq del 1985, e in seguito acquistati dalla Corea del Nord e dall’URSS. La cooperazione con la Corea del Nord ha portato inoltre alla costruzione di impianti iraniani a Shiraz, Khorrambad, Parchin e Semnan per la produzione interamente iraniana di missili a corto raggio, iniziata nel 1988.
Gli Shahab-2, anch’essi frutto della collaborazione con la Corea del Nord, sono varianti dello Hwasong-6, testati per la prima volta nel 1997 da Qom, vicino Teheran, a Shahrud (circa 150 km di distanza). Tali missili hanno una gittata di circa 500 km, che li rende adatti per possibili attacchi contro la penisola arabica.
Gli Shahab 3 sono basati sul No-Dong nordcoreano, a sua volta sviluppato a partire dalla tecnologia degli Scud. La loro introduzione nel 2003 ha comportato un balzo in avanti del programma missilistico di Teheran, fornendo la base per varie tipologie di missili. Con esso la potenzialità d’attacco iraniana sarebbe aumentata prima a 1400 km (Shahab 3A) poi a circa 2000 km (Shahab 3C e 3D), arco utile a raggiungere l’Europa dell’est e il bacino centro-orientale del Mediterraneo, a coprire tutto il territorio indiano e il centro dell’Asia fino alla Mongolia. Tale missile è dunque classificato come MRBM (Medium Range Ballistic Missile).
La vera novità di questo missile riguarda il propellente utilizzato: i propulsori degli Shahab costruiti dal 2006 in poi (versioni 3B, 3C e 3D) sfruttano infatti un sistema misto di combustibile liquido e solido, che permette di diminuire a circa tre ore il tempo di lancio e di aumentarne la velocità in volo fino ai 5500 km orari, nella fase a combustibile liquido. Le altre modifiche introdotte riguardano la possibilità di trasportare fino a 1150 kg di materiale esplosivo, probabilmente anche con munizioni a grappolo, e un sistema di guida che ne aumenta la protezione contro sistemi antimissilistici tradizionali quali l’ABM Arrow israeliano.
Il settore nel quale l’Iran ha realizzato i maggiori successi è senza dubbio quello dei motori, grazie alla riconversione dei razzi Zelzal in dotazione quali propulsori per missili a medio raggio. Tali razzi, probabilmente derivati dal 9K52 Luna-M russo (Frog-7 nella denominazione NATO), sfruttano un propellente composito, estremamente utile per lo sviluppo di razzi più grandi e per l’aumento del carico bellico.
Tale propellente, infatti, ha permesso di sfruttarne la tecnologia di base come punto di partenza per uno sviluppo missilistico costante, attraverso l’introduzione di un sistema di guida e quindi di missili sempre più efficaci. Rispetto al combustibile liquido, infatti, quello solido consente un trasporto molto più agevole e la riduzione dei tempi di preparazione al lancio a un tempo compreso tra i 15 ed i 30 minuti, e ciò ha fatto sì che il sistema industriale missilistico iraniano si sia orientato proprio verso missili dotati di questo tipo di propellente. Nell’ambito di un confronto strategico ravvicinato come quello dello scenario mediorientale, infatti, una capacità d’attacco in tempi brevi risulta fondamentale per una deterrenza efficace rivolta a Paesi vicini.
Per queste ragioni, il settore che sta subendo un’accelerazione maggiore nel campo della balistica iraniana è quello dei motori pluristadio, necessari ad assicurare ai missili una gittata maggiore, una velocità superiore nella fase iniziale, un minor peso in seguito allo sganciamento dei razzi propulsori durante i vari stadi, e una minore individuabilità durante la fase inerziale, grazie al volume ridotto del missile.
Le migliorie introdotte dall’Iran in questo senso testimoniano un progresso costante della tecnologia basata sullo Shahab-3 per arrivare ai motori a multistadio. Nel 2008 l’Iran ha sperimentato il razzo Safir, che ha poi utilizzato per il lancio di un satellite denominato Omid, utile a fini di ricerca e telecomunicazioni, a un’orbita compresa tra i 200 e i 250 km.
Gli studi sull’incremento della capacità di carico bellico rappresentano una parte importante del programma balistico, e vanno di pari passo con la proliferazione nucleare. Attualmente, il gap tecnologico in tale settore risulta difficilmente colmabile senza importanti trasferimenti dall’estero di know-how e di materie prime, e in questa direzione sembra andare il grande interesse con cui l’Iran ha accolto l’alleviamento delle attuali sanzioni.
Molti progetti industriali iraniani che, per loro natura, rivestono un’importanza dual-use civile/militare, quali i lanci nello spazio di satelliti sub orbitali, potrebbero ad esempio beneficiare dell’alleggerimento delle sanzioni tramite l’ingresso nel Paese di esperti del settore e di know-how da convertire in metodologia per progetti d’integrazione delle future testate nucleari.
Allo stato attuale delle cose, il sistema balistico iraniano sembra seguire uno sviluppo forzato, costretto tra una cronica mancanza di risorse e un trasferimento di tecnologie da altri Paesi, che per varie cause avviene in modo parziale e saltuario. Nonostante ciò, l’Iran sta portando avanti con determinazione uno sviluppo costante nel settore missilistico. Teheran ha saputo modernizzare in pochi anni il suo sistema balistico, arrivando a livelli considerevoli di sviluppo che hanno segnato evidenti successi, quali il lancio del primo satellite iraniano.
Finché il programma militare balistico iraniano procederà nella direzione attuale, sarà difficile credere a una totale rinuncia, da parte di Teheran, allo sviluppo di armamento nucleare, così efficacemente difeso negli anni nonostante le pesanti sanzioni.
L’impressione, dunque, rimane quella che l’Iran sia riuscito ad ottenere un allentamento delle sanzioni nell’ambito civile e industriale, funzionale soprattutto a preparare il campo nell’ambito dei vettori di lancio, mantenendo il proprio programma nucleare a basso regime, in attesa dei futuri sviluppi balistici.
Il timore maggiore di quella parte della comunità internazionale scettica verso gli accordi di Ginevra è dunque quello che gli Stati Uniti abbiano in qualche modo ripetuto lo stesso errore commesso con la Corea del Nord nei primi anni 2000, quando, a fronte di notevoli concessioni, furono alleviate molte delle sanzioni relative al settore nucleare, nella speranza che Pyongyang arrestasse le sue ambizioni nucleari militari. Nel giro di pochi anni si scoprì che il regime di Kim Jong-il era riuscito a sviluppare la propria atomica, proprio grazie all’alleggerimento delle sanzioni, e disponeva oramai di vettori di lancio che ne aumentavano esponenzialmente la minaccia.
Lascia un commento