di Alia K. Nardini
Obama ce l’ha fatta. Con 303 electoral college votes contro 206, il Presidente incumbent si aggiudica la maggioranza dei grandi elettori, che voteranno ufficialmente il Presidente degli Stati Uniti il 17 dicembre. Mancano al conteggio i 29 seggi della Florida, dove Obama è leggermente in vantaggio con il 49,8% (contro il 49,3% di Romney). Anche le preferenze dei cittadini vanno complessivamente a Barack Obama e a Joe Biden, con il 50,2% dei voti contro il 48,2% per il ticket Romney/Ryan. Anche se negli ultimi giorni alcuni analisti politici avevano allertato i media del fatto che i Repubblicani potessero dar battaglia e contestare aspramente i risultati elettorali, contea per contea, sembra che un simile scenario non si verificherà. Semplicemente, non ne vale la pena. Barack Obama è chiaramente il vincitore.
Il confronto è stato particolarmente emozionante nei cosiddetti battleground states, gli stati che cambiano spesso orientamento politico e per i quali è estremamente difficile formulare previsioni. Obama ha vinto nella maggioranza dei casi: Colorado, Iowa, Michigan New Hampshire, Ohio, Virginia e Wisconsin, e sembra essersi aggiudicato, seppur con un margine ristrettissimo, la Florida. È proprio nella East coast che inizia a profilarsi la sconfitta dei Repubblicani. In Italia è l’una del mattino quando arrivano i primi exit polls, ai quali segue lo scrutinio parziale di alcuni stati: Georgia, Indiana, Kentucky e South Carolina vanno a Romney, mentre Obama si aggiudica il Vermont. Si attendono informazioni sull’Ohio, lo stato che da quasi cinquant’anni ha sempre votato per il candidato poi eletto Presidente, ma i dati sono troppo incompleti per formulare previsioni. Arrivano anche informazioni dalla Virginia, dove però sembra esserci un sostanziale pareggio, così come in North Carolina – altri due swing states che potrebbero rivelarsi decisivi per queste presidenziali. Tutti attendono con il fiato sospeso.
Alle 2 del mattino (ora italiana) arrivano, a valanga, i dati per gran parte della East Coast: alcuni sono scrutini parziali, altri definitivi. Maine, Rhode Island, District of Columbia, Maryland, Connecticut, Delaware, Massachusetts: se li aggiudica tutti Obama. Seppure questa zona sia composta tradizionalmente da stati Democratici – e quindi il vantaggio di Obama lungo la fascia costiera non sorprenda affatto – appare evidente dai nuovi dati provenienti da Virginia, Pennsylvania, Ohio e New Hampshire che gli swing states sembrano intenzionati a volgersi in massa verso Obama. I Repubblicani intanto si riconfermano trionfatori negli stati del Sud: Romney vince in Alabama, Mississippi e Oklahoma. Poi arrivano i primi spogli delle schede della Florida, ed inizia la corsa di Obama verso la vittoria: nello stato dove nei giorni scorsi sembrava poter avere inizio la riscossa di Romney, è Obama a piazzarsi in vantaggio. Seppur solo con il 25% delle preferenze conteggiate, seppur con un margine davvero ristretto, il trend è chiarissimo: non ci sarà alcuna rimonta del candidato Repubblicano. Con Pennsylvania e Florida dalla sua parte, Obama non può perdere. La vittoria è definitiva quando giungono gli ultimi risultati, alle 5 del mattino ora italiana (sono le 11 di sera negli Usa, sulla costa orientale), anche se Romney concederà la vittoria al Presidente Democratico soltanto due ore dopo, una volta terminato ufficialmente lo spoglio delle schede anche per lo stato dell’Alaska.
Ma quali sono i fattori che hanno decretato la rielezione di Barack Obama? Prima di tutto, l’economia: seppur la ripresa negli Stati Uniti sia penosamente lenta, crescono i posti di lavoro e la gente inizia a guardare al futuro con ottimismo. La situazione è percepita in generale miglioramento, specialmente dove più conta, quantomeno a livello elettorale: gli swing states Colorado, Florida, Ohio, Iowa, Wisconsin hanno tutti registrato trend favorevoli per quanto concerne economia, occupazione, crescita. Specialmente in Ohio, moltissimo ha inciso anche il bailout dell’industria automobilistica, il salvataggio di General Motors e Chrysler costato decine di miliardi di dollari, voluto dal Presidente nel 2009.
Fondamentale per il successo di Obama anche il voto delle minoranze: rispetto al 2008, la sua popolarità è addirittura aumentata tra ispanici, afroamericani e asiatici, complice il fatto che la popolazione appartenente a questi gruppi etnici è in costante aumento. Sono andati a votare in tanti, tantissimi (si parla dell’80-90% dei latinos, per fare un esempio), e la loro preferenza va in stragrande maggioranza ai Democratici. In parte perché Obama è percepito come colui che seguiterà a combattere contro le diseguaglianze sociali; e in misura ancora maggiore perché il Presidente in carica, con le sue politiche redistributive ed assistenziali, è sicuramente più ben visto dalle famiglie numerose, dagli appartenenti alla classe medio-bassa, dalle fasce più disagiate e dagli immigrati (quindi, in realtà, Romney non aveva tutti i torti quando parlava del famoso 47% di elettori “già persi”, coloro che, beneficiando dei sussidi e dell’assistenza sociale, non avrebbero mai votato Repubblicano). In quest’ottica, ci si potrebbe persino spingere ad affermare che la riforma sanitaria di Obama, nonostante tutto, ha pagato, garantendo al Presidente la fiducia da parte di quella fascia di elettorato che ne ha ricevuto benefici, rivelatasi determinante per la sua rielezione. Tra i Repubblicani, c’è anche chi afferma che sul voto delle minoranze, specie quelle ispaniche, hanno pesato gli azzardati suggerimenti di Mitt Romney su come risolvere il problema dell’immigrazione (la sua proposta di self-deportation), alienandosi le preferenze dei latinos su un tema delicato, specialmente in Florida. Il candidato Repubblicano d’altronde si è riconfermato leader indiscusso dell’elettorato conservatore tradizionale, i maschi di origine caucasica, le fasce più affluenti, gli evangelici e coloro che risiedono nelle contee suburbane e rurali. Si aggiungono a questo quadro gli anziani, più propensi a riporre la loro fiducia nel Grand Old Party, forse intimoriti dai tagli a Medicare che la riforma sanitaria voluta da Obama sembra profilare all’orizzonte (così vanno ripetendo da tempo i Repubblicani).
Per quanto riguarda il Congresso, la fiducia ai Democratici si riconferma nel voto al Senato, dove il partito di Obama guadagna alcuni seggi (53 a 45 l’ultimo conteggio, più due indipendenti che dovrebbero sostenere prevalentemente i Democrats), mentre i Repubblicani controlleranno ancora la Camera dei Rappresentanti con i 20 seggi di vantaggio necessari (per ora la maggioranza si è assestata 234 a 187, con una manciata di distretti ancora non completamente scrutinati, che non dovrebbero tuttavia influire sul quadro generale). È interessante notare come il Grand Old Party abbia anche mantenuto la stragrande maggioranza dei governatorati (30 contro 20, dove i Democratici perdono uno stato, la North Carolina). I dati non sono ancora definitivi: ma appare evidente che per il Presidente in carica si prospettano altri quattro anni di battaglie contro l’opposizione. Ciò nonostante, l’America ha deciso: la ricetta di Obama è quella giusta.