di Alessandro Campi
Nessuno può dire come finirà il referendum previsto per domenica prossima in Grecia. I sondaggi che vengono da quel Paese sono contraddittori e poco affidabili. Si vota infatti in un clima di grande incertezza e paura, tra appelli, pressioni e prese di posizione che vengono ormai da tutti gli attori mondiali. Il che significa dover fare i conti con umori collettivi volatili e con elettori confusi, che guardano con timore e sgomento al futuro che li aspetta. Molti di loro probabilmente decideranno solo all’ultimo momento se orientarsi per il sì o per il no.
L’unica certezza, in attesa del responso delle urne, è che non ci saranno vincitori, ma solo perdenti. Perderà l’Europa. Perderà Tsipras. Perderà la democrazia, anche se si argomenta il contrario. Ma un po’ risulterà sconfitta anche l’Italia, per ragioni che i tifosi improvvisati di Tsipras – dalla Lega a Grillo, dall’estrema destra all’estrema sinistra – forse farebbero bene a considerare.
Non trovando una soluzione ragionevole e tempestiva alla crisi finanziaria della Grecia, l’Europa ha inferto a se stessa un danno politico e d’immagine che sarà difficile riparare nel breve periodo, con grande gioia di quei partiti che prendono a pretesto ogni suo passo falso per contestare la legittimità storica e l’utilità pratica del processo di integrazione continentale. Certo, non bisogna mai dimenticare le colpe e gli errori della classe politica greca: sia quella pregressa, che ha dilapidato la ricchezza nazionale e truccato i conti pubblici; sia quella attualmente al governo, che per come si è mossa sulla scena internazionale ha dimostrato di essere dilettantesca, pesantemente ideologizzata, doppiogiochista e sostanzialmente inaffidabile. Ma tutto ciò è poca cosa rispetto alle responsabilità dell’Unione europea: un colosso politico-finanziario-burocratico che, vittima anche dei meccanismi decisionali farraginosi che si è data, non ha capito che un’economia come quella della Grecia, per quante riforme interne quest’ultima possa realizzare, non potrà mai onorare il suo gigantesco debito. Oltre una certa soglia l’intransigenza finanziaria si risolve in ottusità politica. E diventa un alibi per chi vuole vestire i panni della vittima per sottrarsi furbescamente agli impegni che ha sottoscritto. Esattamente quel che è accaduto in questa vicenda.
Sconfitto dall’esito del referendum sarà in ogni caso anche Tsipras. Se vinceranno i no al programma di aiuti proposto alla Grecia dai creditori internazionali, avrà la responsabilità storica di aver condotto il suo Paese nel baratro economico, a meno che non arrivi davvero la Russia di Putin a concedergli nuovi prestiti miliardari. Se vinceranno i sì dovrà accettare il suo fallimento politico: forse nascerà un governo di grande coalizione, forse ci saranno elezioni anticipate, di certo lui dovrà uscire di scena. Incapace di rispettare le promesse fatte ai suoi elettori e di contenere le spinte radicali provenienti dal suo stesso partito, Tsipras ha semplicemente giocato d’azzardo e dimostrato di essere, più che uno statista, un politicante perfettamente in linea coi tempi grami che stiamo vivendo.
Ha scaricato sul popolo greco, spacciandosi per campione della democrazia diretta, le responsabilità che non si è voluto assumere. Sperava inoltre con la minaccia di un referendum che gli interlocutori internazionali avrebbero infine accettato le sue condizioni, anche perché è noto che più grandi sono i debiti più grande è il problema che hanno i creditori, presi sempre nel dilemma se rischiare di perdere tutto, se accontentarsi di recuperare qualcosa o se continuare a mettere mano al portafogli. Tsipras ha sperato in un accordo dell’ultimo momento dopo anche dopo aver indetto il referendum. Ma la posizione di chiusura assunta dai vertici europei e avallata dalla Merkel lo ha chiaramente spiazzato.
C’è poi da considerare la sconfitta della democrazia, sebbene questo voto dovrebbe certificarne l’affermazione nella sua forma più autentica. Tale sconfitta nasce dal fatto che votare con la pistola alla tempia, senza avere un’idea chiara di qual è la posta in gioco e di quale potrà essere l’esito delle proprie scelte, non rappresenta, come argomentano gli entusiasti della sovranità popolare, una vittoria della libertà ma un’azzardo puro e semplice. Un popolo chiamato a scegliere sul filo dell’emozione può facilmente sbagliare, farsi manipolare o lasciarsi guidare da sentimenti irrazionali, che rischiano di andare in direzione contraria ai suoi interessi. Visto che va di moda ricordare tutto ciò che dobbiamo alla Grecia antica, ricordiamo che sono stati proprio i suoi grandi pensatori a spiegarci come la democrazia possa fatalmente degenerare e assumere una forma bastarda quando a ispirarla sono i cattivi umori collettivi e quando i suoi capi derogano ai loro doveri e si abbandonano alla demagogia.
C’è infine da considerare la posizione dell’Italia, che anch’essa rischia di uscire male da questa vicenda, comunque vada. In caso di crac ricordiamo agli amici estemporanei di Tsipras che siamo esposti verso la Grecia per quasi quaranta miliardi di euro: una situazione debitoria delicata per un Paese che ha a sua volta problemi di finanza pubblica e che attraversa un momento assai difficile dal punto di vista economico. Rischiamo inoltre, in caso di fibrillazioni sui mercati finanziari mondiali per colpa del caos greco, di subirne più di altri i contraccolpi, per contagio come si dice, anche se la nostra situazione, quale che siano i problemi che abbiamo, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella della Grecia. Ma per l’Italia il danno è anche politico. Matteo Renzi, già a partire dalla sua Presidenza di turno dell’Unione europea, più volte si è espresso criticamente nei confronti delle politiche di austerità sperando che fosse possibile stabilire delle alleanze in grado di ammorbidire o contrastare la posizione della Germania e degli altri Paesi fautori nord-europei del rigore. Ma la piega presa dalla crisi greca ha dato spazio, come si è visto, all’ala europea intransigente che si riconosce nella Merkel. La posizione italiana puntava ad un cambio di rotta politica dei vertici europei nel segno del gradualismo. Faceva leva sul dialogo, sulla forza di persuasione, sulla tessitura diplomatica e su un riformismo finanziario guidato dal buon senso (magari sostenuto discretamente dalla Bce guidata da Draghi). Ma nello scontro che si è scatenato, a partire dalla Grecia, tra populisti di destra e di sinistra e falchi del rigore, quelli annidati tra Bruxelles e Berlino, è chiaro che la posizione italiana perde di forza e finisce per diventare irrealistica.
Questo referendum, insomma, andava semplicemente evitato. Quale che ne sia l’esito, lo scotto lo pagheranno in molti.
* Editoriale apparso su “Il Messaggero” del 3 luglio 2015
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