di Alessandro Campi

imagesCA0QFAC7In principio fu Jörg Haider. Faccia da attore, di famiglia benestante, un parlare forbito ma diretto e spiccio, sorriso affabile e malandrino, spesso in abito tradizionale a testimoniare l’attaccamento alle radici montanare, legami sentimentalmente ambigui con la memoria del Terzo Reich, una passione esibita per le auto sportive, nessun timore reverenziale nei confronti dei vecchi notabili politici.

Fu il primo leader populista ad aggirarsi come un fantasma per l’Europa, scatenando gli esorcismi e i timori dell’establishment democratico continentale. Anche se quello da lui incarnato parve più che altro uno scoppio imprevisto di irrazionalità, il rigurgito ideologico del Paese che aveva pur sempre dato i natali ad Hitler: sarebbe bastato creargli intorno un cordone sanitario per evitare che trovasse emuli ed estimatori fuori dai confini austriaci.

Haider morì nel 2008: tragicamente e dannato, ma il suo precedente ha fatto scuola, segno che era il sintomo di un processo storico di più lunga durata. All’epoca dei suoi primi trionfi alla guida dei nazionalisti liberali dell’FPÖ, a partire dagli anni Novanta, non c’erano ancora la crisi finanziaria che negli ultimi anni ha drammaticamente impoverito milioni di cittadini europei, lo spettro del terrorismo metropolitano di marca islamista e l’esodo di massa dei rifugiati in fuga dalle guerre mediorientali che adesso premono alle frontiere degli Stati centroeuropei dopo essere sbarcati per anni sulle coste italiane.

C’erano già però il discredito e la perdita di legittimità dei partiti politici tradizionali (socialisti e popolari), accusati di spartirsi il potere a danno del popolo. La diffidenza verso la burocrazia di Bruxelles, giudicata algida e autoreferenziale. E il timore per una globalizzazione che favorendo gli spostamenti di popolazione altera, in nome del profitto di pochi, antichi equilibri sociali e culturali. Haider veniva non a caso dalla Carinzia: natura incontaminata, le solide tradizioni del passato, un tessuto comunitario reso stabile dalla comunanza di lingua, costumi e memorie. Tutti i temi insomma sui quali, negli anni successivi, sono fioriti i partiti e movimenti che oggi compongono la solida famiglia del populismo europeo.

Ieri un erede diretto di Haider, Norbert Hofer, ha trionfato al primo turno delle elezioni presidenziali austriache (ha ottenuto un clamoroso 36,7%). Ma nessuno, con i terremoti elettorali che si sono succeduti in Europa nel corso degli ultimi anni (dalla Grecia alla Francia, dalla Polonia alla Spagna, dall’Italia all’Ungheria), parla più di caso o fatalità. Anche se ancora una volta le previsioni della vigilia, più speranze mal riposte che sondaggi scientifici, paventavano sì una buona affermazione della destra anti-immigrati, ma davano solidamente in testa Alexander Van der Bellen, storico esponente dei Verdi. Quest’ultimo è invece arrivato secondo col 20% dei voti.

Hofer e Van der Bellen adesso se la vedranno al ballottaggio. Ma un dato politico è già emerso chiaramente: gli elettori preferiscono sempre più gli outsider, magari sopra le righe sul piano del linguaggio e delle proposte, magari con scarsa esperienza di governo, ai candidati tradizionali che si muovono entro i confini del politicamente corretto e che finiscono per dire le stesse cose anche quando appartengono a schieramenti diversi.

Il candidato dei popolari, Andreas Kohl, e quello dei socialdemocratici, Rudolf Hundstorfer, insieme hanno raggiunto appena il 22% dei consensi: i due partiti che sono stati il perno istituzionale dell’Austria e che ancora oggi sostengono la coalizione di governo hanno pesantemente pagato la disaffezione dei loro stessi elettori, un eccesso di permanenza al potere e una strategia di contrasto all’immigrazione, a colpi di filo spinato e muri di contenimento, che è stata evidentemente giudicata tardiva e persino esageratamente goffa. Ci si chiede, con questo risultato, quanto potrà resistere la grande coalizione bianco-rossa che già dalle precedenti tornate elettorali, nel 2013 e nel 2015, era uscita profondamente indebolita.

Se il populismo non è una soluzione o una ricetta politica praticabile, come sostengono molti analisti, dobbiamo almeno accettare – smettendola con gli accenti demonizzanti – che si tratti del sintomo di un malessere collettivo che si continua evidentemente a sottovalutare. Nei giorni scorsi c’era chi richiamava la Vienna multietnica e poliglotta di Klimt, Canetti e Kraus per stigmatizzare la possibile avanzata della destra e della sua orrenda ideologia basata sulla chiusura dei confini e sull’assenza di umanità. Ma si tratta di una forma di sentimentalismo letterario privo di senso politico, che scambia l’angoscia per il futuro di milioni di cittadini con un ritorno deliberato al razzismo. Invece di dare risposte al malessere degli elettori li si addita, quando votano nel segno della protesta, come reprobi morali, spingendoli così sempre più tra le braccia di chi, magari ne strumentalizza le paure e le ansie, ma almeno dà l’impressione di interessarsi ai loro problemi.

Prendere sul serio i fattori d’ordine sociale e culturale che alimentano il populismo – un mix di precarietà esistenziale, paura del domani, impoverimento di massa, frustrazione politica indotta dal convincimento di non aver voce in capitolo nelle decisioni che riguardano la propria vita – dovrebbe essere il modo migliore per provare a combatterlo. Invece ci si limita a denunciarlo e a farne la caricatura. Per il ballottaggio in Austria già s’immagina il copione che verrà recitato. Tutti si uniranno – giornali ed establishment politico, destra e sinistra, industriali e sindacati ufficiali – per sbarrare la strada al candidato della destra, come già si è fatto molte volte in Francia. Ma è un’amalgama che funziona come diga momentanea e che paradossalmente sta rafforzando sempre di più coloro che traggono la propria forza propria dall’opporsi a tutto ciò che viene considerato parte del sistema di potere ufficiale.

La verità è che il populismo ha rotto la diga della politica ufficiale e si è insediato come un attore stabile all’interno dei sistemi democratici europei. Ma la verità ancora più amara da accettare è che nessuno ha ancora messo a punto una strategia efficace – sul piano delle idee e dei programmi politici – per fermarne l’avanzata sempre più trionfale.

 

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