di Matteo Chiavarone

Ci sono quei momenti della storia che si apprendono e si studiano come “inizio” o “fine” di qualcosa, ma poi spesso, carichi di simbologie, diventano ben presto qualcos’altro.

L’attentato di Sarajevo è la scintilla che fa traboccare il vaso: è qui che inizia la Prima guerra mondiale.

Ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki, fine del secondo conflitto.

Ne potrei elencare molti altri ma è quest’ultimo quello che colpisce di più. Un atto tragico che mette il punto su tutto: su una guerra lunghissima, su una stagione, sulla possibilità dell’uomo di autoregolamentarsi.

Il vero passaggio, forse, tra storia moderna e contemporanea.

Quello che, insieme ad altri eventi come l’olocausto, entrò di diritto nell’immaginario negativo dell’Occidente creando un problema di coscienza che colpì non solo chi quella bomba decise di lanciarla ma tutta la collettività americana ed europea, proiettandosi ad “ultimo atto del processo di autodistruzione” dell’essere umano, non riesce oggi a trainare un dibattito serio e maturo, libero di ideologismi di ogni genere.

Ci prova però un autore italiano, Paolo Agnoli, che, nel suo saggio “Hiroshima e il nostro senso morale” (Guerini & Associati, 2013), tenta, a mio avviso riuscendoci, di proporre un dibattito sull’argomento, soffermandosi non tanto sul fatto storico (anche se descritto minuziosamente) quanto sulle problematiche riguardanti la scelta intrapresa da parte degli scienziati di lavorare alla bomba e da parte dei politici (in primis il presidente Truman) di utilizzarla. Una serie di passaggi, di piccole scelte che conducono alla “scelta” più importante.

Non ci fu fretta né rabbia, ma una consapevole fermezza. La tesi dell’autore conduce in questa direzione: non c’erano altre alternative.

Truman si pronunciò dopo aver vagliato molteplici possibilità. Lo scenario terribile che si presentò, appariva a suoi occhi “meno terribile tra tutti quelli possibili”.

L’autore si districa tra i vari percorsi che questo argomento può far intraprendere con chiarezza e limpidezza, non distraendosi mai dal compito che ha deciso di “affidarsi” ma provando a mettere il suo modo di pensare e di procedere squisitamente laico e razionale.

Tutte le domande iniziali – poste intelligentemente nella prima parte del libro – trovano risposte nelle pagine successive; ogni ipotesi è avvalorata da un’imponente bagaglio di conoscenze (storiche, scientifiche, filosofiche) e di informazioni politiche e militari (oltre che da un’appendice fotografica); ogni certezza può rivelarsi dubbio, e viceversa.

Quello che può apparire un saggio per studiosi del settore (storico? militare? scientifico?) è in realtà un godibile lavoro che può creare interesse al lettore comune sia per quella che può essere vista come una provocazione (l’autore mi sta dicendo che la bomba atomica in fondo è stata a fin di bene?) sia per il linguaggio attento ma senza orpelli che si dipana su un impianto che ricorda la saggistica anglosassone.

La chiave del libro è nella dicotomia tra etica e morale, parole che troviamo alla base di tutto sia perché attraverso di loro prendiamo o meno delle decisioni, sia perché in determinati momenti anche loro possono saltare.

Il problema non è nelle armi o nell’utilizzo finale ma nelle cause che ne hanno reso l’uso inevitabile: i milioni di morti della Seconda guerra mondiale non devono essere addebitati a chi ha richiesto l’ultima donazione di sangue ma alle “nefaste ideologie” di alcuni uomini che, in nome di ipotetiche superiorità e di desideri di conquista, hanno ridotto i continenti a continui teatri di morte.

Non poteva però esserci una soluzione migliore? Un’esplosione solo dimostrativa? Paolo Agnoli risponde anche a questa innata domanda con un no che proviene dalla testa e dal ragionamento e non dal cuore.

E, a pensarci bene, forse, se da un lato è un procedimento che ci mette paura (a quale altra tragica decisione dovremmo assistere?), dall’altro ci ricorda che abbiamo la forza di evitare l’ennesimo punto di non ritorno.

 

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