di Michele Marchi
Niente “luna di miele”, dunque, per il “president normal” François Hollande. A quattro mesi dal suo ingresso all’Eliseo, secondo presidente socialista dopo il padre nobile della sinistra Mitterrand ad occupare lo scranno che fu del generale de Gaulle, Hollande ha visto crollare il sostegno dell’opinione pubblica di oltre dieci punti percentuali.
In realtà qualcosa di molto simile era già accaduto proprio a Mitterrand nel 1981 e a Jacques Chirac nel 1995. Ad impensierire però l’inquilino dell’Eliseo e il suo entourage sono due dati ulteriori. Da un lato una diffusa sensazione che le riforme avviate e/o promesse dal nuovo presidente siano poco ambiziose o che comunque siano dispiegate in maniera troppo lenta. Dall’altro, un vero e proprio “fuoco di fila mediatico”, a destra ma anche a sinistra, volto a stigmatizzare l’immobilismo e la scarsa reattività alla crisi del Presidente.
Le critiche ai primi passi del presidente socialista si sono in particolare concentrate su tre fronti. Primo bersaglio il governo guidato dall’opaco Ayrault. Il sindaco di Nantes non è parso in grado di coordinare un esecutivo all’interno del quale ciascun ministro sembra libero di intervenire su singoli dossier o di criticare i propri colleghi. Emblematico, da questo punto di vista, lo scontro tra il titolare dell’Economia Moscovici e quello dell’Industria Montebourg. Il secondo problema è di natura istituzionale e riguarda la cosiddetta “diarchia” Primo ministro-Presidente. In origine Hollande si era espresso per una netta discontinuità rispetto all’iperattivismo di Sarkozy. Affermando, nel corso della campagna elettorale, che il Primo ministro non sarebbe stato il primo dei suoi collaboratori, Hollande descriveva una sorta di ritorno alle origini nella lettura costituzionale. D’altra parte l’idea del “président normal”, vincente in fase elettorale, su questo essenzialmente doveva fondarsi. Infine il dato congiunturale riguardante la crisi. Da questo punto di vista Hollande aveva previsto una netta discontinuità rispetto agli anni Sarkozy. Ma se si eccettua un innalzamento del prelievo fiscale per le fasce più abbienti, fino ad oggi il governo si è limitato ad una serie di provvedimenti scarsamente coordinati e con l’ulteriore pecca di non offrire ricadute immediate o perlomeno di offrire all’opinione pubblica questa impressione.
Di fronte allo spettro di una rentrée ad alto rischio, Hollande ha scelto l’azione, rendendosi conto che lo slogan della presidenza normale, utile per tranquillizzare l’opinione pubblica terrorizzata dalla crisi almeno quanto dalla necessità di riformare il proprio modello economico-sociale, non lo è per la gestione del potere. Dopo aver anticipato di due settimane l’avvio della sessione parlamentare autunnale, ricordato al primo ministro l’importanza di un attento coordinamento della sua compagine e dedicato più tempo al rapporto diretto con la stampa, Hollande è andato in televisione domenica 9 settembre e ha fatto professione di volontarismo e attivismo. Da “président normal” si è trasformato in “président de combat”. Ha soprattutto cercato di mostrare all’opinione pubblica di essersi reso conto della gravità della situazione (disoccupazione che ha sfondato il tetto dei tre milioni e stime di crescita per il 2013 passate dall’1,2% allo 0,6%). E di conseguenza, hanno commentato i maligni, Hollande si è riscoperto un po’ più simile a Sarkozy.
Ma qui il dato è sistemico, piuttosto che congiunturale. Hollande, con il suo intervento televisivo e in generale con l’attivismo successivo alla pausa estiva, ha mostrato quanto sia mutato il ruolo del presidente della Repubblica una volta ridotto a cinque anni il mandato. Senza dubbio Sarkozy aveva incarnato il ruolo di presidente in maniera originale e la sua iper-presidenza era molto legata alle sue personali attitudini e alla sua concezione post-ideologica e volontarista della politica. Però Sarkozy aveva soprattutto mostrato che dal 2002 in poi il sistema si è ulteriormente “presidenzializzato” e di conseguenza il Primo ministro può essere un valido collaboratore, ma non il parafulmine dietro il quale il Presidente si nasconde in caso di scelte impopolari, né tanto meno colui che in prima persona guida il Paese. Sarà in grado, Hollande, di fornire una sua originale declinazione dell’iper-presidenza?
E qui dall’istituzionale si passa nuovamente al politico. Nel già citato intervento televisivo egli ha confermato l’impegno a riportare il rapporto deficit/Pil al 3% entro il 2013 e per fare questo ha annunciato dieci miliardi di euro di tagli e venti di nuove tasse. Sul fronte della crescita, tema così caro al candidato Hollande nel corso della campagna elettorale, ha promesso di intervenire sulla produttività del lavoro, ribadendo di voler utilizzare comunque il metodo della concertazione. Molti economisti hanno commentato polemicamente sia la scarsa attenzione per il tema della riduzione della spesa pubblica (vero male francese), sia la pratica concertativa (in un Paese con i sindacati meno rappresentativi d’Europa), sia infine il probabile effetto depressivo di una politica di ortodossia di bilancio condotta in una congiuntura di stagnazione economica.
Ma realmente decisivo sarà il passaggio di metà ottobre, quando l’Assemblea nazionale è chiamata alla ratifica del trattato europeo (fiscal compact) negoziato da Sarkozy nel marzo scorso e solo parzialmente rinegoziato proprio da Hollande al suo primo Consiglio europeo del giugno successivo. Socialisti e verdi sono divisi. Hollande dovrà riuscire, con l’aiuto del suo Primo ministro e del ministro delegato agli affari europei, a limitare al minimo la dissidenza, evitando così di riaprire la ferita mai sanata del 29 maggio 2005. Un voto compatto sarebbe una nuova iniezione di fiducia per il Presidente, significherebbe poter contare su una maggioranza coesa e sarebbe un chiaro segnale di affidabilità per i mercati e per le altre capitali europee, prima fra tutte Berlino. Per salvare l’Europa Merkel ha chiesto ai tedeschi di esserlo un po’ meno. Hollande dovrà, dal canto suo, chiedere ai socialisti francesi di essere un po’ meno socialisti.
Insomma ancora una volta, per certi aspetti come per Mitterrand nel 1983, il destino di un socialista all’Eliseo passa per la sua capacità di adattarsi e di adattare il proprio partito all’evoluzione del processo di integrazione europea.
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