di Michele Marchi
È una debacle storica, quella subita dai socialisti francesi ora che i dati del secondo turno hanno amplificato i già pessimi risultati di una settimana fa.
All’indomani del primo turno tutta l’attenzione mediatica si era concentrata sul Fronte nazionale e sulla capacità della sua leadership politica di ottenere risultati importanti anche in uno scrutinio locale, storicamente ostico per lo scarso radicamento territoriale del partito e per le complicate continuità storiche che regolano la tradizione municipale francese. Chiuse le urne del secondo turno e completata la conta, permane il buon risultato del Rassemblement bleu Marine, con una dozzina di sindaci e oltre un migliaio di consiglieri municipali (ma meno del 7% di voti a livello nazionale), ma spicca la sconfitta su tutta la linea del Partito socialista, più ancora che della sinistra nel suo complesso.
I numeri innanzitutto sono impietosi. Dopo le municipali del 2008, il PS controllava 29 città oltre i 100 mila abitanti su 42, oggi ne controlla solo 19. Se si approfondisce l’osservazione e si passa alle cittadine con meno di 30 mila abitanti, il numero sale a 61 perse, molto peggio delle 29 perdute nel 1983 e delle 20 nel 2001, considerati fino ad oggi i momenti più difficili del “socialismo municipale”.
Proprio il riferimento al “socialismo municipale” permette di focalizzarsi sugli elementi più politici dell’esito del voto. Nel lungo “regno PS” di Hollande, primo segretario dal 1997 al 2008, il socialismo francese aveva fatto del suo radicamento territoriale la prima alternativa allo strapotere nazionale del post-gollismo, così come lo strumento per la conquista del Senato.
Hollande all’Eliseo si candida a vero e proprio “affossatore” di quel socialismo municipale che egli stesso aveva contribuito non poco ad edificare. L’onda UMP di questa fine marzo travolge il PS e riporta a destra la quarta città di Francia, quella Toulouse conquistata a sorpresa dalla gauche nel 2008, ma anche altre conquiste socialiste delle precedenti municipali come Saint-Etienne, Angers, Reims, Caen. Simbolicamente rilevanti sono poi la perdita di Limoges (a sinistra dal 1912), Nevers (a sinistra dal 1971 e tra il 1983 e il 1993 amministrata dal più volte ministro e Primo ministro di Mitterrand Pierre Bérégovoy) e Niort (dal 1957 a guida socialista). E altrettanto brucianti sono le sconfitte del consigliere di Hollande Bernard Poignant a Quimper, dove concorreva per il quarto mandato consecutivo e quella del ministro dell’Economia e delle Finanze Pierre Moscovici, candidato uscente nel piccolo comune di Valentigney. Ma anche laddove il PS regge, come a Parigi (con l’elezione della vice di Bertrand Delanoe, Anne Hidalgo), a Lione (con la riconferma di Gerard Collomb) e a Lille (con la riconferma di Martine Aubry), in realtà il PS si prepara a perdere, a vantaggio della destra, tutte le presidenze delle rispettive comunità urbane (compreso il Grand Paris) dal momento che la maggior parte dei centri minori attorno a Parigi, Lione e Lille hanno voltato le spalle ai socialisti.
Insomma se Marine Le Pen canta vittoria perché ha dimostrato che il bipartitismo può essere messo in discussione anche a livello locale e se Jean-François Copé, e tutto l’UMP, possono tirare un sospiro di sollievo e occultare la crisi di leadership dietro l’incoraggiante score locale, per François Hollande si è giunti all’ultima spiaggia.
L’alto livello di astensione, in particolare a sinistra, e il voto di rigetto (non solo FN, ma anche verso le componenti più estreme della sinistra) sono sintomi di una impopolarità nazionale oramai cronica del Presidente e del suo partito. La maggior parte dei sindaci PS uscenti poteva contare su discreti sondaggi e una certa soddisfazione da parte delle rispettive comunità. Non a caso quasi tutti hanno cercato di mantenere le rispettive campagne elettorali distanti dai temi nazionali e in molti casi hanno anche eliminato la rosa con il pugno (simbolo del PS) dal loro simbolo elettorale.
Sul banco degli imputati è dunque chiamato l’inquilino dell’Eliseo e per una molteplicità di carenze in questi due anni di mandato.
In discussione sono prima di tutto le sue scelte per i collaboratori dell’Eliseo, per la squadra di governo (a cominciare dall’oramai ex Primo ministro) e per la guida del PS (a partire dal contestato e impalpabile Harlem Désir). In secondo luogo Hollande sconta l’insuccesso sul fronte della lotta alla disoccupazione e, in particolare, la sua incapacità di mantenere la promessa dell’inversione della curva del tasso di disoccupazione nei primi due anni di mandato. In terzo luogo il PS paga la rivolta delle classi medie e quello che è stato definito il ras-de-bol fiscal, cioè l’esasperazione per una tassazione sempre più elevata e sempre più soffocante, in particolare per la fascia di popolazione più impoverita dalla crisi economica. Infine Hollande ha pagato a caro prezzo la recente scelta di invertire la rotta sui temi della politica economica. La svolta social-liberale del settembre 2013, poi confermata ad inizio anno con il “patto di responsabilità”, non è stata sufficientemente spiegata, non ha potuto contare su un approfondimento pedagogico e si è tramutata in un clamoroso autogol politico, dal momento che ora è denunciata prima di tutto dagli alleati verdi e da una parte consistente dell’ala sinistra del suo stesso partito.
Hollande appare in un vicolo cieco. Alcuni osservatori hanno parlato di lui come di Mitterrand nel 1983 che, dopo una sonora sconfitta alle municipali del marzo di quell’anno (ma di proporzioni minori rispetto a quella odierna), optò per la svolta in politica economica, suggerita da tempo da Delors e Mauroy (rispettivamente ministro dell’Economia e Primo ministro). Allora Mitterrand abbandonò il lirismo del changer la vie (emblematicamente rappresentato dalle nazionalizzazioni), decidendo per il rigore e l’economia di mercato, preconizzando quella che alcuni storici hanno definito una Bad Godesberg non rivelata del PS.
Le differenze tra il 1983 e il 2014 sono molteplici ed è molto difficile (e spesso foriero di errori) paragonare due momenti così differenti. Tra le altre differenze non bisogna dimenticare che Mitterrand aveva davanti a sé un orizzonte temporale di oltre quattro anni (il mandato era di sette) e tre anni abbondanti prima delle legislative del 1986. Inoltre egli poteva contare su una popolarità superiore rispetto all’attuale di Hollande (con la popolarità sotto al 20%), su un pieno controllo del partito socialista e su valide alternative da proporre per sostituire Mauroy (decisione che prese solo l’anno successivo, dopo le oceaniche manifestazioni a favore della scuola privata e la sconfitta alle elezioni europee del giugno 1984). Mitterrand, a quel punto, dimissionò un logorato Mauroy e tentò il rilancio politico con Laurent Fabius.
Oggi Hollande ha scarsi margini di manovra, deve cercare di implementare il “patto di responsabilità” già promesso. Non può certo permettersi un nuovo cambio di politica economica (pena il commissariamento di Parigi da parte di Bruxelles o del FMI) e in aggiunta tra meno di due mesi deve affrontare complicate elezioni europee e una serie di successivi appuntamenti elettorali (senatoriali nel settembre e dipartimentali e regionali nel 2015), che apriranno la strada alla lunga campagna presidenziale per il voto della primavera 2017.
Ebbene questa volta Hollande sembra aver scelto la strada dell’azione e del volontarismo, che abitualmente non appartengono al suo DNA politico e per certi aspetti si è forse ispirato al Mitterrand che nell’estate 1984 portò Fabius (attuale ministro degli Esteri di Hollande) ad essere il più giovane Primo ministro della Francia della Quinta Repubblica.
Nominando Manuel Valls Primo ministro, Hollande compie una scelta allo stesso tempo coerente e rischiosa. La coerenza è tutta racchiusa nei numerosi atout dell’ex ministro degli Interni. Il Paese, con il voto municipale, ha chiesto uno spostamento verso destra degli equilibri e Valls è, senza alcun dubbio, un socialista “atipico”. Egli unisce la tradizione della sinistra liberale (modello deuxième gauche di rocardiana memoria) a quella della sinistra repubblicana e laica, in particolare sui temi della sicurezza e dell’immigrazione (per questo è stato spesso, in maniera anche caricaturale, accostato al super-flic di Francia Nicolas Sarkozy). Valls ha il profilo perfetto per portare avanti il “patto di responsabilità” promesso da Hollande in questi mesi alle aziende e alla classe media francese. Non mancano, anche nel recente passato, le sue prese di posizione polemiche contro il ministro dell’industria Montebourg o le critiche alla famosa legge sulle 35 ore, emblema della gauche plurielle di Jospin a fine anni Novanta. D’altra parte però di recente, mostrando un innato realismo (virtù decisiva per il politico di successo), Valls è parso ri-avvicinarsi, sui temi dell’euroscetticismo, proprio a Montebourg e all’ala di sinistra del PS rappresentata da Benoit Hamon. In aggiunta Valls è un ottimo conoscitore della macchina governativa, è un habitué di Matignon, per aver gestito la comunicazione dell’allora Primo ministro Jospin tra il 1997 e il 2002. Da questo punto di vista dovrebbe segnare una netta discontinuità rispetto ai due anni di Jean-Marc Ayrault, inadatto nel dirigere una squadra di governo scoordinata e senza una leadership.
Scelta dunque coerente, ma azzardata. Nel senso che Valls resta un “marginale” all’interno del PS (non dimentichiamo il suo misero 5,6% raccolto alle primarie per la candidatura all’Eliseo dell’ottobre 2011), ma allo stesso tempo è l’unico socialista in alto nei sondaggi di opinione (a febbraio il suo livello di popolarità era doppio rispetto a quello del Presidente). Dunque la sua è una legittimità esterna forte, ma interna tutta da costruire, non dimenticando quanto l’inquilino di Matignon abbia bisogno di un rapporto saldo con il gruppo parlamentare del suo. Inoltre Valls non ha lesinato, nei mesi trascorsi nell’esecutivo Ayrault, le critiche nei confronti dei principali alleati di governo, cioè i verdi, e pessimi sono i suoi rapporti con tutto la sinistra estrema, a partire da quelli con il Front de gauche. Infine è un vero e proprio punto interrogativo la gestione della cosiddetta diarchia, cioè il rapporto tra Presidente e Primo ministro. Reso ulteriormante complicato dal quinquennato, nello specifico Hollande e Valls sembrano due personalità agli antipodi. D’altra parte anche due profili per certi aspetti simili e “compatibili” come Hollande e Ayrault hanno mostrato, in questi due anni, di non possedere alcuna alchimia. Se Ayrault però non possedeva nemmeno in potenza le caratteristiche per oscurare Hollande, non altrettanto si può dire di Valls. Insomma Hollande si è spinto laddove Chirac, rifiutando più volte Matignon all’allora ministro degli Interni Sarkozy, non osò mai arrivare. Nell’immediato una candidatura di Valls all’Eliseo per il 2017 è pura fantasia. Egli ha 51 anni, può permettersi di puntare al 2022 e lavorare per ricostruire un minimo di fiducia tra Paese e PS. Molto dipenderà dall’esito delle elezioni europee e dall’impatto della svolta social-liberale in politica economica. Se Hollande nei prossimi mesi dovesse andare ancora più a fondo, non è escluso che il nuovo inquilino di Matignon non voglia sprofondare con lui. E allora potrebbe davvero cominciare una fase competitiva all’interno della diarchia.
Si entra però nell’ambito delle ipotesi. Al momento basta ribadire che, optando per Valls come Primo ministro, Hollande ha dato segnali di risveglio dal lungo torpore che lo contraddistingue da quando è entrato all’Eliseo, nell’oramai lontano maggio 2012.
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