di Michele Marchi
Ora che anche il faccia a faccia televisivo è stato archiviato la parola tornerà al popolo sovrano. La campagna per eleggere il nuovo inquilino dell’Eliseo per i prossimi cinque anni non ha fatto altro che fotografare un Paese in profonda crisi, sospeso tra una centralità europea da tempo sfumata e un protagonismo nel mondo globale ancora tutto da inventare.
Le quasi tre ore di dibattito tra Sarkozy e Hollande sono state un mix di tecnicismi economico-finanziari e insulti più o meno personali, tanto che tra le parole più volte pronunciate vi sono state bugia e menzogna. Che tra Hollande e Sarkozy non possa esservi simpatia umana è scritto nelle rispettive biografie personali, prima ancora che politiche. Da un lato l’amante della vita di provincia e della politica come compromesso e sintesi. Dall’altro il borghese balzachiano teorico del volontarismo e del movimento continuo. Al di là e al di sopra di queste differenze, a dominare la scena è stato un convitato di pietra: la crisi economica e l’impossibilità (o l’incapacità), per il presidente uscente almeno quanto per il suo sfidante, di proporre una chiara e originale via d’uscita. De Gaulle, citando Napoleone, amava affermare: “l’intendenza seguirà”, utilizzando questa espressione per testimoniare la sua fede incrollabile nel primato della politica, lui che se ne era accostato da militare di professione. Ebbene nel contesto transalpino la congiuntura di crisi ha confermato che all’impasse economica corrisponde anche una drammatica (e per certi aspetti ancora più allarmante) impotenza politica.
Tra i tanti paralleli con la storia, l’attuale corsa all’Eliseo è stata avvicinata a quella del 1981 tra l’uscente Giscard d’Estaing e lo sfidante Mitterrand (che peraltro era già al terzo tentativo). Qualche affinità importante tra Giscard e Sarkozy la si può riscontrare, in particolare il difficile compito di difendere un bilancio reso ancora più misero da una lunga congiuntura di crisi economica. Mitterrand, come Hollande oggi, si presentò al dibattito televisivo imputando al presidente uscente di essere l’“homme du passif”. Allora il presidente uscente faticò a difendere il suo tentativo di riformare il Paese, smussandone i caratteri più francocentrici, aprendolo all’Europa e mettendo mano al suo generoso, ma dispendioso, stato sociale. Qualcosa di simile è accaduto all’iper-presidente Sarkozy che tra i molti peccati originali ha pagato più di tutti quello forse meno grave: l’essere in realtà un personaggio politico alquanto avulso alla tradizione politico-culturale francese. Ma il dato che più allontana quel 1981 dall’odierno 2012 è che di fronte ad un presidente uscente alle corde, allora si trovava uno sfidante che aveva ancora l’ardire di provare ad introdurre una via d’uscita politica alla crisi. Lasciando da parte per un momento l’impraticabilità delle ricette di Mitterrand, che non a caso dal 1983 in poi cambiò nettamente tendenza e si mosse in direzione di un riformismo liberale e pragmatico, il candidato socialista rimproverava a Giscard di essere anche “homme du passé” e dunque implicitamente si attribuiva una ventata di novità che oggi Hollande è ben lungi dal rappresentare. E da questo punto di vista il dibattito è stato davvero emblematico. Nel ripetere il suo azzeccato slogan “moi, Président de la Republique” Hollande ha enumerato una serie di caratteristiche della sua potenziale presidenza, praticamente tutte relative al modo nel quale incarnerà il ruolo presidenziale. Quasi a testimoniare che la più netta ed evidente discontinuità tra i due consisterà nel moralizzare la politica e nel riportare in auge la figura del monarca repubblicano.
Anche la dicotomia più volte descritta tra il candidato dell’austerità (Sarkozy) e quello della crescita (Hollande) in realtà regge solo in parte, dal momento che Hollande ha fatto molta attenzione a non recepire le chimeriche promesse contenute nel programma del PS e si è limitato a mantenere due o tre proposte choc (abbassamento dell’età pensionistica e la promessa di sessantamila funzionari pubblici, tra scuola e polizia), che accontentano l’ala sinistra del suo partito e il Front de gauche, ma che non è certo se riusciranno ad essere adottate. Peraltro è lo stesso Sarkozy a confermare implicitamente quanto siano mancati in questa campagna elettorale due veri progetti alternativi di uscita dalla crisi quando più che attaccare Hollande sull’incoerenza e non sostenibilità dei suoi progetti, si è soprattutto impegnato a difendere il bilancio dei suoi cinque anni e ancora di più a sottolineare l’inesperienza di Hollande nel gestire i principali dossier, parlando a questo proposito di una “normalité qui n’est pas à la hauteur des enjeux”. In definitiva né Hollande, né Sarkozy sono parsi in grado di spiegare come faranno a continuare l’opera di riduzione del deficit pubblico, senza sacrificare la crescita (Sarkozy) e come garantiranno nuova crescita, senza peggiorare la situazione dei conti pubblici (Hollande).
Al termine di un dibattito televisivo che, come tutta la campagna elettorale tra i due turni, è stato più utile per motivare e mobilitare i fedelissimi, piuttosto che per convincere gli indecisi, non è mancato il convitato di pietra Marine Le Pen. Con il suo 18% Le Pen è stata in grado di assorbire larga parte del malcontento di una popolazione senza particolari illusioni per il futuro e di unire questo “grido di dolore” a quello di un elettorato “indignato” per la definitiva destrutturazione del “modello francese”.
Anche in questo caso a Hollande è toccato il compito più semplice. In vantaggio al primo turno e certo di poter contare sui voti dell’elettorato del Front de gauche e di quello ecologista di Joly ha giocato tutte le sue carte sulla moralizzazione della politica, per garantirsi una parte consistente di quel voto centrista che gli consentirebbe un’elezione quasi certa.
Molto più complesso il compito di Sarkozy, costretto a rincorrere il voto frontista sul terreno della lotta all’immigrazione e della condanna della proposta del candidato socialista di permettere agli extracomunitari regolari da cinque anni di votare alle elezioni locali (vera e propria trappola dal momento che sino al 2008 Sarkozy si era detto favorevole all’ipotesi), ma contemporaneamente a corteggiare Bayrou e il suo elettorato, accentuando i richiami alla disciplina di bilancio e all’introduzione in costituzione della cosiddetta “règle d’or”.
Anche le dichiarazioni di voto di Marine Le Pen e François Bayrou non hanno suscitato sorprese. La leader del FN ha da tempo scommesso sulla sconfitta di Sarkozy e sulla conseguente implosione del suo modello di partito di centro-destra. Se Sarkozy lascerà l’Eliseo, Marine Le Pen dovrà dimostrare la validità della sua strategia alle legislative di giugno e più in generale nel portare avanti un vero e proprio progetto politico-culturale di egemonizzazione e destrutturazione dello spazio della destra repubblicana.
Le scelte di Bayrou, come peraltro accade spesso, sono difficilmente intellegibili. È noto che il suo elettorato centrista segue in maniera solo parziale le indicazioni di voto. Di conseguenza la decisione di dichiararsi per un voto “personale” a Hollande non sposterà gli equilibri del ballottaggio, ma di certo renderà molto problematico il riavvicinamento del centro alla destra, unica condizione perché il centro stesso possa svolgere una funzione di governo nel Paese. La storia, da questo punto di vista, parla chiaro. È stato così per i centristi di maggioranza con Pompidou, per Lecanuet con Giscard, è andata in questo modo con l’UDF giscardiana e negli anni Novanta con il CDS dello stesso Bayrou, non a caso Ministro dell’educazione nazionale nei governi di destra Balladur e Juppé tra il 1993 e il 1997. Il centrismo di opposizione, o addirittura alleato dei socialisti e del resto della gauche, sembra un’ipotesi soltanto teorica nel contesto bipolare della V Repubblica.
Se i sondaggi saranno confermati (l’ultimo accredita il candidato socialista al 52,5% al ballottaggio), Hollande sarà il secondo socialista, dopo Mitterrand, a conquistare l’Eliseo. Il momento sarà di sicuro storico, ma difficilmente si potrà dimenticare che ad uscire malconcia da questa campagna elettorale è la politica, intesa come capacità reale di incidere sulle dinamiche macro-economiche e come sforzo programmatico da attuare sul medio-lungo periodo. Cala il sipario su una campagna elettorale per la guida di un Paese in grave impasse, che ha visto sfilare per contendersi lo scranno più alto da un lato “un presidente da tempo battuto”, dall’altro un candidato la cui migliore caratteristica sembra quella di avere un certo talento per la “posture presidentielle”.
Ancora una volta, verrebbe da dire, la Francia è lo specchio che riflette un malessere politico comune all’intero Vecchio Continente. Da Parigi ci si attendevano novità, purtroppo sono giunte conferme.
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