di Giuseppe De Lorenzo – 18.11.2014

ROMA - ASSEMBLEA NAZIONALE DEL PDC’è un dubbio che attanaglia e disturba le notti di molti grandi nomi della sinistra italiana, da Bersani a D’Alema, passando per Cuperlo e l’ex renziano Civati. Insieme a Roberto Speranza, capogruppo Pd alla Camera, e tanti altri che, passata l’asfaltatrice da Firenze, si sentono ormai orfani. Non di un partito, perché questo l’hanno e garantirà a molti di loro visibilità politica e un seggio parlamentare fino alla pensione. Ma della guida di una “ditta”, per dirla con Bersani, in cui per decenni hanno comandato e dove ora sono ai margini. Non è l’Articolo 18 a far ribollire le fila dalla minoranza Pd, ma il fatto di essere stati esautorati dai ruoli che contano all’interno del Partito. Paradossalmente, infatti, per indole D’Alema e seguaci preferirebbero mettersi a capo di una formazione più modesta, forse perdente, ma in cui le regole del gioco sono scritte da chi di dovere, non da una Boschi qualsiasi appena comparsa sulla scena politica. Bersani continua ad assicurare che «il Pd è davvero casa nostra», ma nel frattempo riunisce tutte le forze di sinistra tra i Dem che non si riconoscono nella corsa contro il tempo intrapresa dal Presidente del Consiglio.

Si opporranno senza sbattere la porta. Ma fare la corrente di minoranza non è nelle loro corde. Al tempo del Pci asserragliato a Botteghe Oscure, infatti, la linea era unica, dettata esclusivamente dal Segretario. E se la linea del Capo differiva da quella del corpo composto dai suoi fedelissimi, poco importava, a prevalere era sempre la prima. Come racconta Massimo Caprara, Togliatti durante le direzioni di Partito era solito impegnare la mente con le parole crociate, distogliendo l’attenzione dall’argomento in ballo. Alla fine, il “compagno Ercoli” dava forma alla decisione da lui già presa in precedenza, ignorando il dibattito. Il “centralismo democratico” di quegli anni, imperniato sull’egemonia culturale del Capo, non è molto dissimile in fondo dal Partito Democratico odierno. Togliatti descrisse questo suo modo di fare con una metafora che egli stesso lesse riferita a Cavour: «le persone che gli ruotano attorno sono atomi ai quali dà un impulso e che gravitano intorno a lui con un movimento cieco, obbedendo alla sua attrazione». Perché l’impostazione del Partito Comunista era e doveva essere il controllo del Capo sul partito e di questo sul popolo, attraverso le sezioni, i giornali e le reti di relazione. Con il tempo, la trasformazione in Pds prima e Ds poi, ha lasciato spazio a piccole minoranze autorizzate a far sentire la propria voce, senza esagerare. L’unione con i cattolici della Margherita e la formazione del Pd ha invece generato un cambiamento nella forma, facendo nascere correnti vere e proprie in stile Dc, senza però attaccare in alcun modo la leadership degli ex Pci sul controllo del Partito. Primato venuto meno in maniera evidente e probabilmente definitiva con le primarie del 2013. In quell’occasione si è consumato il dramma di molti dei dirigenti, politici di spessore e parlamentari che da padroni di casa si sono ritrovati mal sopportati coinquilini, rapidamente privati del potere partitico. Nell’era Renzi il “centralismo democratico” non si è modificato, ha solo cambiato protagonisti. Alle direzioni di Partito il Presidente del Consiglio ascolta ma poi decide come vuole, esattamente come Togliatti faceva tra una definizione orizzontale e l’altra. In fondo, anche Occhetto comunicò la volontà di trasformare il Pci in Pds parlandone prima con pochi e decidendo infine da solo. Ma Renzi è erede dalla Margherita, non dall’area fino a ieri mente decisionale del più grande partito italiano.

La sconfitta di Bersani, chiamato senza riuscirci alla formazione di un governo di Sinistra, ha consegnato a Renzi il Pd. Così è nato il dramma al momento senza soluzione: cosa fare, dunque? L’inaugurazione di una corrente minoritaria collide con l’abitudine a fare la voce grossa. «Bisogna adeguarsi alla linea scelta dalla maggioranza che guida il Partito», era solito ricordare Bersani dopo esser diventato Segretario. Ora le parti si sono invertite ed occorre quindi fare una scelta. Perché non uscire da un Partito in cui ormai non ci si riconosce?

La risposta non giace solo nell’opportunismo politico, declinato nel matematico calcolo secondo cui un partito al 38% garantisce a tutti i big collocazione parlamentare. Ma si evidenzia anche in una cultura politica e partitica che è naturalmente portata a guardare sotto una cattiva luce l’allontanamento dalla “ditta”, comunque essa si chiami. Per i fedelissimi le scelte dei vari scissionisti, sin dalla svolta della Bolognina, sono sembrate essere gravi ed irrimediabili errori. Accadde lo stesso negli anni ’60, quando si presentò la prima grande sfida di opposizione interna al Partito Comunista. Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Aldo Natoli furono espulsi con l’accusa di “frazionismo”. Avevano fondato la rivista mensile “Il Manifesto”, criticando dalle sue colonne le linee del Partito. Dopo poco allo stesso Caprara, che per anni seguì Togliatti come segretario personale, toccò la stessa sorte. «Rifletti ancora. Non farti trascinare fuori», lo pregarono di rivedere le proprie posizioni critiche. Poi, l’espulsione e quella sorta di damnatio memoriae che tutti i componenti del Pci furono costretti a fare non perché obbligati da qualcuno, ma perché istigati dalla personale avversione a chiunque stesse facendo «del male al Partito». Caprara lo ricorda in un aneddoto del giorno stesso della sua radiazione, mentre in buvette incontrava l’amico Pajetta: «mi disposi a tendere la mano per salutarlo, come da anni facevo (…). Abbozzò un’impercettibile deviazione per scansarsi e proseguì senza parole, senza più vedermi. (…) Lo rividi molte altre volte fuori dalla cerchia degli obblighi pubblici d’appartenenza. Ma non mi riconobbe più. Fui materialmente cancellato».

Avversione e cattiva comprensione per chi si allontana dal Partito sono rimaste nel comune sentire di chi in tale cultura è politicamente cresciuto. Anche se nell’interpretazione i ruoli si sono invertiti, con chi è sempre stato maggioranza costretto a inventarsi opposizione. La frase che Ingrao riservò ai compagni dissidenti, «non sarei in grado di mettermi contro il Partito», resta ancora oggi un principio che i suoi eredi si portano nello zaino, nonostante molte cose siano ormai cambiate. Sommandovi, ovviamente, il vile calcolo elettorale e la quasi certa perdita di peso istituzionale una volta fuori dal Pd, nelle scelte di D’Alema e Bersani rimane l’avversione per chi abbandona la nave. Probabilmente, fino al momento in cui Renzi non decidesse di tirare la corda quel tanto da far in modo volontariamente di spezzarla, la nuova corrente sotto l’egida di Bersani non scenderà dal carro.

Il meno restio ad andarsene, si noti, è Pippo Civati. Che sulle dinamiche di quello che fu il Pci ha solo letto qualche pagina di storia.

 

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