di Gianni Ferracuti
Attorno alle proteste dei No TAV la retorica nazionale si è scatenata fino a raggiungere punte di insuperabile genialità. Un dimostrante insulta un carabiniere: quante ne abbiamo sentite (e ahimé dette) dal ’68 ad oggi! Non posso qui fare citazioni, per rispetto al colto e all’inclita, ma il dimostrante in questione le supera tutte: gli dice (sit venia verbo) “pecorella” – e subito diventa un criminale, manco fosse Totò Riina. Il carabiniere che fa? Gli fracassa la testa, come con i no global a Napoli? Gli strappa il piercing dall’orecchio, come alla Diaz di Genova? No! Semplicemente, manco lo considera – e diventa ipso facto un eroe! E tutt’intorno politici, istituzioni e mamelucchi a ripetere, come una litania, che il dissenso è lecito, ma la violenza no. La violenza è sempre da condannare.
Disgraziatamente, non è così. Nelle proteste di massa (e quella contro la TAV lo è) la violenza è sempre dietro l’angolo, e se davvero si vuole evitarla, c’è da fare solo una cosa: prevenirla. E per prevenire la violenza c’è un solo modo: adottare un atteggiamento di umiltà e riconoscere che, potenzialmente, potrebbe essere giustificata. Capire le possibili ragioni della violenza implica la disponibilità al dialogo e al compromesso; ignorarle significa delegare la soluzione delle questioni politiche al manganello della polizia, che in genere serve a radicalizzare lo scontro, anziché a gestirlo. Non è vero che la violenza è sempre ingiustificata: sul piano personale è legittima se serve a tutelare la propria vita e quella dei propri familiari; sul piano politico la questione è più complessa. Lo stato moderno assume su di sé il monopolio della violenza, ne affida l’esercizio alle istituzioni preposte alla tutela dell’ordine pubblico, e fissa il quadro normativo in cui esso viene svolto. Si definiscono così gli elementi in base ai quali la violenza rientra nell’ambito del lecito. Ma l’ambito del lecito è una creazione giuridica che, a volte, può non coincidere con l’ambito del legittimo.
Esistono Paesi in cui non è lecita la libertà di espressione, la quale, tuttavia, non cessa di essere legittima, e come tale rivendicabile. In uno stato democratico, quale formalmente l’Italia sembra essere, non dovrebbero esistere dubbi sulle condizioni in cui la violenza risulta illecita e illegittima, eppure esistono circostanze in cui il quadro teorico sembra scricchiolare. Riflettiamoci un attimo: in base a cosa uno stato può decidere il lecito e l’illecito? La risposta sembra facile: lo stato può decidere del lecito e dell’illecito in base al principio di sovranità: lo stato è sovrano e, nel rispetto della costituzione, emana le leggi, da cui i cittadini non possono derogare. Orbene, poniamo la domanda impertinente: a chi spetta, in via di principio, la sovranità sulla Val di Susa? Risposta ovvia: allo stato, al cui territorio appartiene la Valle. Risposta meno ovvia: ai valligiani.
In uno stato democratico, per di più nel pieno di un dibattito sulla necessità di un assetto federale, la sovranità su un territorio appartiene a chi lo abita, e si esercita (questa sovranità, non un’altra astratta) attraverso le istituzioni, le quali sono tenute al dialogo e alla presa d’atto della volontà popolare. In uno stato democratico, emerse forti opposizioni alla TAV da parte delle istituzioni locali, si sarebbe proceduto a un referendum. Se emerge un conflitto tra una comunità locale e il potere centrale, o si tiene in debito conto la volontà popolare o si fa un colpo di mano statalista: in questo secondo caso, l’azione dello stato è lecita, in virtù delle leggi vigenti, ma non è detto che sia legittima e, spingendo avanti lo scontro, la repressione del dissenso rischia di legittimare moralmente una reazione violenta. Lasciamo da parte la considerazione che questa reazione violenta fa il gioco del potere centrale, interessato a criminalizzare le proteste per togliere loro il consenso popolare: resta chiaro che la violenza si alimenta nell’assenza di dialogo (chi ha qualche anno sulle spalle può ricordarsi di alcune analogie con la rivolta di Reggio Calabria negli Anni Sessanta).
La Val di Susa è stata occupata militarmente per realizzare un’opera faraonica, sulla cui utilità sono stati espressi seri dubbi da persone autorevoli e competenti: non risulta che ci sia stata una discussione seria al riguardo. Invece si assiste a proclami retorici in difesa dell’autorità e sovranità dello stato, che sarebbe gravemente lesa da famiglie di valligiani in vena di darsi una botta di vita con il brivido del gesto terrorista. Il presidente leghista della Regione Piemonte, che dovrebbe avere delle idee chiare sul soggetto a cui spetta la sovranità su un territorio, ha dichiarato che gli atti di violenza sono commessi da persone che vengono da fuori regione: almeno su questo punto non aveva appigli per accusare gli extracomunitari. O magari il tizio che è caduto dal traliccio mentre protestava contro il sequestro del suo terreno aveva antenati campani… Battute a parte, la gestione del conflitto sulla TAV da parte delle forze politiche sta dimostrando un’involuzione della nostra democrazia: lo stato si pone come unico detentore di sovranità – tutto dentro lo stato, niente fuori dallo stato, con buona pace della democrazia liberale e del principio di sussidiarietà. Fieramente immersi nel nuovo mito della post democrazia, siamo tornati a calcare strade vecchie, che in passato hanno provocato catastrofi. Auguri!
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