di Alia K. Nardini

Non c’è bisogno della sofisticata analisi apparsa recentemente sul New Republic, che ripercorre le tappe più significative degli appuntamenti elettorali statunitensi negli ultimi vent’anni, per ricordarci che i sondaggi raramente sbagliano. E non c’è neppure bisogno di chiamare in causa i più esperti e noti analisti politici d’oltreoceano. La realtà è che, a poco più di un mese dal momento in cui gli Usa saranno chiamati a decidere riguardo a chi siederà alla casa Bianca dal gennaio 2013, appare quasi certo che Barack Obama verrà riconfermato.

Il dato più strabiliante è che Mitt Romney non è mai stato in testa, in nessun momento della sua campagna elettorale (se si esclude una breve parentesi lo scorso anno, una settimana per essere precisi, dal 5 all’11 ottobre 2011, in cui l’ex Governatore del Massachusetts mantenne un vantaggio di circa +0,5/+1 punto percentuale sul Presidente in carica). Dal 3 al 5 settembre di quest’anno si è assistito piuttosto ad una situazione di sostanziale parità, ed anche il 27 settembre un sondaggio Rasmussen riportava dati simili, con il 46% delle preferenze accordate ad entrambe i candidati. Tuttavia, il trend riconferma Romney costantemente in svantaggio. Nemmeno John McCain aveva ottenuto risultati tanto mediocri: quando nominò Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza, i Repubblicani balzarono avanti, seppur soltanto per alcuni giorni. Quest’anno, nonostante l’ottima scelta di Paul Ryan come vice nel ticket presidenziale, il Grand Old Party non è mai riuscito a suscitare sufficiente entusiasmo nell’elettorato. Obama ha mantenuto in media un vantaggio che va dai 2 ai 5 punti percentuali, e questo nei battleground states, gli stati nei quali “si fa battaglia”, che i Repubblicani devono assolutamente conquistare per avere almeno una possibilità di vincere.

Ha un bel dire Karl Rove, che pur fu consigliere elettorale di George W. Bush, che accusa i media, nonché i sistemi di rilevamento delle preferenze, di favorire i Democratici. È ovvio che, di fronte a dati così scoraggianti, il Grand Old party non intenda certo gettare la spugna: ma ricorrere a improbabili teorie del complotto, o di manipolazione dell’umore pubblico tramite una “sconfitta annunciata” appaiono un po’ troppo contorte – per non dire fantasiose. Sta il fatto che l’ipotesi più ottimista è che i Repubblicani possano in realtà trovarsi in una situazione di “sostanziale parità” con i Democratici nella sfida per la Casa Bianca. Difficilmente uno scenario entusiasmante.

Ovvio, non si vuole qui affermare che tutto sia già deciso. L’incognita più grande è rappresentata dalla politica estera: la situazione in Siria si fa sempre più esplosiva, e chiede a gran voce un intervento da parte della comunità internazionale – e dunque dell’America, che ne è l’elemento trainante. Anche la minaccia di un Iran nucleare, che Israele sembra sempre meno disposta a tollerare, unitamente agli sviluppi in seguito al recente attentato al consolato americano a Bengasi, potrebbero forzare la mano a Obama nel prendere una posizione più decisa in merito alla gestione del fondamentalismo islamico – posizione che forse non risulterebbe ben accetta a tutti gli elettori Democratici. Anche il fattore demografico inciderà sul voto statunitense: i giovani e le minoranze, i gruppi che si mobilitarono in massa allo slogan del “change you can believe in” del 2008, e furono assolutamente cruciali per il successo dell’allora Senatore dell’Illinois, non si presenteranno quasi certamente altrettanto numerosi alle urne il prossimo 6 novembre.

Infine, dobbiamo ancora assistere ai dibattiti presidenziali. Negli ultimi mesi, il candidato Repubblicano è migliorato, certo, ma saprà tenere testa al Presidente in carica? È difficile credere che il brillante comunicatore Obama possa farsi mettere in difficoltà da Romney, ma tutto è possibile. Altrettanto arduo è valutare se gli elettori intendano riporre la loro fiducia in un partito che ripete come gli ultimi quattro anni siano stati un clamoroso insuccesso: in un’America che ha sofferto pesantemente la crisi finanziaria e ancor di più la lenta ripresa dell’economia, e vuole soltanto tornare a sognare, è plausibile pensare che i cittadini cerchino la continuità con un’esperienza di governo che forse, dopotutto, non valutano così negativamente quanto l’incognita che Mitt Romney invece rappresenta.

In tutto questo, Paul Ryan può dare una marcia in più al ticket repubblicano. Il giovane Rappresentante del Wisconsin non solo ha i mezzi e i modi per argomentare una critica puntuale e strutturata nei confronti delle politiche attuate dall’Amministrazione in carica; ma ha soluzioni concrete da proporre, specialmente in ambito economico e riguardo alla tanto controversa riforma sanitaria, che Romney può far proprie. Ciò nonostante, è bene ricordare che non è Ryan a correre per la presidenza. Ovviamente anche il vicepresidente in carica Joe Biden, riconfermato da Obama, potrebbe influenzare la sfida, incorrendo in un’altra delle sue notissime gaffes, penalizzando i Democrats; tuttavia, così come per il vice candidato Repubblicano, non è lui a correre in prima linea. Se la sfida fosse tra Romney e Biden – o tra Obama e Ryan – i Repubblicani avrebbero molte più chance. Persino un eventuale dibatto a quattro potrebbe riservare qualche sorpresa positiva per il Grand Old Party. Ma questo tipo di sfide non sono in calendario. Per ora, Obama è in testa, e sembra intenzionato a restarci per i prossimi quaranta giorni.

 

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