di Manlio Lilli
“Oggi purtroppo l’ambientalismo è ridotto ai minimi termini. Sull’Ilva, a parte Angelo Bonelli e qualche gruppo su Facebook, non vedo molto. Dov’erano la Cgil, Vendola, Bersani, mentre la gente a Taranto moriva? Evidentemente finora non se ne erano accorti”. Così si è espresso in un’intervista al Corriere della Sera il 14 agosto 2012 Gianfranco Amendola, prima “pretore d’assalto”, poi europarlamentare dei Verdi, discutendo della vicenda dell’Ilva. La risposta di Ermete Realacci, uno dei leader storici di Legambiente e oggi responsabile Pd per la green economy non è meno tranchant. “Mi sembrano dichiarazioni fuori dallo spazio e dal tempo. In realtà la questione ambientale ha fatto grandi passi avanti. Chi avrebbe mai detto solo 15 anni fa che la Germania avrebbe rinunciato al nucleare o che in Italia ci sarebbero stati quasi 300 mila impianti per le fonti di energia rinnovabile”. Al di là dalle analisi delle rispettive ragioni, ha mostrare un suo vivo interesse è altro. Come sostiene Realacci, la dimensioni ecologica fa parte del mondo contemporaneo, almeno nella sfera occidentale, ma non trova una corrispondente ed efficace rappresentanza politica, come rileva Amendola. Ecco(lo) il tema di fondo.
In un passato, neppure tanto lontano gli ambientalisti erano interlocutori obbligati degli industriali. Così alla fine degli anni Ottanta partecipavano alle assemblee di Fiat e Montedison. Sembravano cioè avere un peso.
Da almeno un trentennio il movimento ambientalista italiano vive un pernicioso paradosso. Molte idee importate dall’Europa o dagli Stati Uniti, sono diventate patrimonio comune anche da noi. Marmitte catalitiche, lampadine fluorescenti e pannelli solari s’incrociano con le previsioni formulate, nel 1972, dal rapporto I limiti dello sviluppo. Ma anche con la Bioeconomia inventata da Nicholas Georgescu-Rogen, negli anni Settanta o con i calcoli sui “costi sociali dell’inquinamento” elaborati da Jean-Philippe Barde.
Partendo da così promettenti premesse ci si sarebbe aspettati esiti migliori. Invece questa cultura in Italia ha mancato tutte le occasioni per trasformarsi in forza politica solida. In grado di avere voce autorevole nel Governo del Paese. E’ rimasta una storia marginale di una frangia minoritaria che dopo mille battaglie, nel recente passato ha protestato per la discarica romana di Corcolle e poi, ora, davanti ai cancelli dell’acciaieria di Taranto.
Nel partito dei Verdi hanno militato in tanti, spesso con vicende tanto diverse da spingerli, in seguito, a cercare fortuna altrove. Da Carlo Ripa di Meana a Gianni Mattioli, da Francesco Rutelli a Alex Langer, da Edo Ronchi a Massimo Scalia, da Grazia Francescato a Alfonso Pecorario Scano, passando per Gianfranco Amendola e Luigi Manconi. Tutti accomunati dal non essere riusciti ad infrangere la soglia del 3,5% in un’elezione. Mai il consenso raccolto sulle idee, trasformato in voti, in seggi. Neppure in momenti nei quali gli eventi sembravano spingere quasi naturalmente in quel senso. Il caso più clamoroso nel 1986, l’anno di Chernobyl. Quando le organizzazioni ambientaliste, insieme ai Radicali, guidarono la protesta contro il nucleare. Quando la manifestazione di Roma portò nelle piazze quasi 200 mila persone. Anche allora, nelle elezioni del 1987, i Verdi ottennero soltanto il 2,5%. Il risultato fu salutato come lusinghiero partendo dalla convinzione che si trattasse dell’avvio di un percorso, dell’incipit di una nuova storia. Si trattava di una previsione errata. Nelle consultazioni politiche del 2008 la coalizione Sinistra arcobaleno, costituita da Verdi, Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Sinistra democratica, a malapena raggiunse il 3%.
La spiegazione secondo la quale i temi ambientalisti hanno poco appeal in tempi di crisi, non convince. Certo è assolutamente vero che di fronte a scelte nette, come lo è il caso Ilva, l’opinione pubblica prediliga l’occupazione ai rischi ambientali. Il vantaggio presente fornito da un lavoro certo. Anche a costo di un futuro incerto. Ma il fatto che anche nelle stagioni migliori della prima Repubblica il consenso elettorale dei Verdi sia stato assai scarso, dimostra che non è questione di inflazione e di spreed.
Forse a questo stato di cose ha anche contribuito un problema di accesso ai mass-media come argomenta Monica Frassoni, co-presidente del partito dei Verdi europeo. Ma sarebbe riduttivo incentrare la discussione su questo tema. Che in Italia esista un pluralismo “difficile”, evidentemente come conseguenza di un controllo impari dei media, è inequivocabile. Ma è pur vero che con le medesime difficoltà si sono scontrati negli ultimi anni anche la Lega Nord e Beppe Grillo e da ancor prima i Radicali.
Molto più probabile che abbia nociuto all’ascesa la contrapposizione tra economia e ecologia, tra occupazione e ambiente. Per questo da alcune dichiarazioni della stessa Frassoni, come di Realacci, sembra emergere la raggiunta consapevolezza che sia necessario proporsi in maniera differente. Sostenendo un nuovo e moderno modello di sviluppo economico, da affiancare a una scelta politica per un’Europa federale. Spiegando che investire in tecnologie pulite non significa dover rinunciare a posti di lavoro. Anzi in questo modo se ne possono creare anche di nuovi. Ma perché questa svolta si realizzi è indispensabile lavorare. “L’idea è costruire un partito con l’organizzazione dei francesi e i contenuti dei tedeschi”, sostiene Angelo Bonelli, Presidente della Federazione dei Verdi. Un nuovo soggetto politico che è probabile nasca i prossimi 13 e 14 ottobre, in occasione dell’assemblea programmatica e statutaria.
Il richiamo alla Germania, esplicito. Al mito dei Grunen e del loro leader, Josechka Fischer. Era il 1983 quando i Verdi comparvero nel Bundestag. Non un partito ufficiale, privi di un segretario, con un semplice portavoce, per di più a rotazione. Intervenivano su questioni strettamente ambientali e sul tema della pace. Volutamente disinteressandosi di tutto il resto, di spesa pubblica, scuola, sanità e difesa. Dopo 15 anni, nel corso dei quali l’originario drappello di tecnici del settore si è trasformato in forza politica di governo, il consenso è lievitato. Con la supremazia dei “realos”, i realisti, di Fischer, sui “fundis”, i fondamentalisti, sono arrivati risultati importanti. Prima, nel 2009, nelle elezioni nazionali, il 10,7%. Nel 2011, nelle regionali del Baden-Wurttemberg, addirittura il 25%.
Un progetto, per così dire, di governo, quello dei Verdi tedeschi, nato alla fine degli anni Novanta. Da allora l’ambizione è quella di guidare il Paese, di portare un proprio rappresentante ad essere Cancelliere. Partendo da queste premesse, avendo come modello i Grunen, è forse possibile, come sostiene Bonelli, costruire un nuovo partito dei Verdi italiani. Ma perché questo processo si realizzi è necessario risolvere problemi cruciali. Iniziando dallo scontro e quindi dalla vitale supremazia degli uni piuttosto che degli altri. Continuano a persistere chiaramente differenti interpretazioni tra “realisti” e “fondamentalisti” sulla gran parte delle tematiche ecologiste. Dai servizi pubblici all’agricoltura, dall’energia all’industria.
Ma quand’anche si raggiungerà una visione meno contraddittoria su quelle aree tematiche si dovrà stilare un programma che si declini in idee lineari sui grandi assi portanti.
I reiterati tentativi di saldare insieme le istanze ambientaliste con quelle dell’estrema sinistra sono fin’ora falliti. Indicando che, forse, non è impossibile trovare punti di incontro anche con culture politiche diverse, dai socialdemocratici ai cattolici. Paradossalmente, in una stagione di grandi mutamenti e di spostamenti epocali, potrebbe essere quasi più facile trovare terreno fertile nelle aree moderate. Piuttosto che ostinarsi a cercarlo lì dove non si è trovato nel passato ed ancora oggi si fatica a rintracciare. Come dimostra la vicenda Ilva. Sulla quale le posizioni delle anime verdi (Verdi, Pd e Sel) sono in aperta contraddizione.
Insomma in Italia il Verde è ancora “sbiadito”.
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