di Romeo Lucci*
Lo sguardo dell’Europa è distratto da quanto è accaduto e continua ad accadere in Ucraina, ma, dall’altro lato del mondo, il dossier Venezuela è sempre più al centro delle attenzioni dell’intero continente americano. Gli studenti sono scesi in piazza, oramai più di quindici giorni fa, contro l’attuale presidente della Repubblica Nicolás Maduro (a sinistra, nella foto) e, più in generale, contro una maniera, secondo molti sbagliata, di intendere lo Stato e la politica.
Decine di morti, per lo più giovani e giovanissimi, ed un bilancio destinato a salire per un Paese che sembra incapace di imboccare il sentiero, ripido e tortuoso, che possa garantire la pacifica convivenza tra quelli che appaiono in maniera sempre più netta come due schieramenti, diversi e quantomai contrapposti.
Un bipolarismo figlio dell’eredità culturale di Chávez, raccolta a piene mani dai suoi successori, che sin dai propri esordi ha improntato stile e dialettica tesi a generare una progressiva e profonda spaccatura tra “borghesia” (termine divenuto negli anni sinonimo del peggiore degli insulti a queste latitudini) e “popolo” (il vero nucleo fondante di tutte le riflessioni sorte in seno al chavismo).
“Divide et impera”. Una locuzione latina, in italiano “dividi e domina”, che l’allora presidente ed il suo intero entourage dovevano conoscere molto bene. Un’idea messa scientemente in primo piano sin dal principio, senza troppo preoccuparsi, purtroppo, delle possibili conseguenze future. Conseguenze che, oggi come oggi, sono invece più che evidenti. Uno scenario diviso in due metà, entrambe preda di una drammatica disperazione, che a giudicare dal clima che si respira rischia davvero di precipitare in una sanguinosa guerra civile.
La frattura politica, però, si ricompone in qualche modo sotto il comune denominatore dei disagi che sono alla base del caos di questi giorni. Tanto i ricchi borghesi, quanto i più poveri ed emarginati inquilini delle favelas, infatti, lamentano in realtà gli stessi mali.
Un modello politico-economico, ribattezzato “socialismo del XXI secolo”, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti, senza distinzione alcuna di schieramenti ideologici.
La produzione interna rasenta lo zero assoluto, gli scaffali dei supermercati sono vuoti, la sicurezza è ai minimi storici e la criminalità è fuori controllo. E mentre le strade di tutte le principali città venezuelane bruciano, il resto del Continente latinoamericano prospera. Senza contare le sconfinate risorse di materie prime sulle quali il governo di Caracas potrebbe fondare la rinascita del Paese.
Eppure, Maduro è ancora lì. Tutt’altro che solido, ma deciso ad andare avanti per la strada tracciata dal “comandante eterno”, Hugo Chávez, la cui immagine viene sventolata come una sorta di simbolo sacro nel tentativo, a volte goffo, di farne rivivere la leadership ed il carisma. Virtù del tutto sconosciute al nuovo presidente che, sempre più spesso, sembra improvvisare nell’affannata ricerca di fantomatiche soluzioni. Un giorno decide di espellere 3 diplomatici statunitensi, accusandoli di aver tramato con le associazioni studentesche con l’intento di destabilizzare il Paese, il giorno dopo tende la mano ad Obama chiedendogli di nominare un nuovo ambasciatore (che manca in Venezuela da circa 3 anni). Parla con insistenza di “pace” ed “amore”, ma rifiuta qualsiasi contatto e qualsivoglia forma di dialogo con i manifestanti mentre riceve presso il palazzo presidenziale di Miraflores i leader dei collettivi armati per garantire, probabilmente a sé stesso, equilibrio ed una qualche forma di stabilità. Grida ai quatto venti la grandezza della democrazia venezuelana e, parallelamente, fà incarcerare uno dei principali volti dell’opposizione, Leopoldo Lopéz, accusandolo di lavorare ad un rovesciamento delle istituzioni e dispone il blocco di tutti i canali televisivi fuori dal controllo del proprio esecutivo, incluso il colosso CNN Español, le cui trasmissioni verranno interrotte a breve.
Maduro è ancora lì perché la posta in gioco è troppo alta e non soltanto per lui. Gli introiti derivanti dal petrolio sono una vera e propria miniera d’oro, nonché una “maledizione” secondo numerosi analisti ed economisti di caratura internazionale, che ha contribuito nel corso di questi anni non soltanto a strutturare una fitta rete clientelare, ma altresì a piazzare uomini e donne di fiducia in tutte le posizioni istituzionali “chiave”. Il fenomeno ha raggiunto proporzioni tali da rendere difficile, se non addirittura impossibile, una chiara distinzione tra stato e partito.
Comunque vadano le cose nelle settimane a venire, queste giornate di sangue sono destinate a lasciare un segno nella storia del Paese. Difficile azzardare delle previsioni, ma con grande probabilità il futuro è legato a doppio nodo alla tenacia dei giovani che stanno animando la protesta. Se dovessero “mollare la presa”, il tutto si risolverà in un nulla di fatto. Se, viceversa, decidessero di non fare alcun passo indietro, la sfida potrebbe assumere dei connotati storici. Il governo, dal canto suo, avrebbe tutto l’interesse ad abbassare i toni del confronto, ma in buona sostanza si sta muovendo in una direzione diametralmente opposta.
Il desiderio dei governanti di reprimere la “piazza” li ha puntualmente condotti in un vicolo cieco. E questo non lo dicono analisti o esperti di politica internazionale. Lo dice la storia. La stessa storia di cui, evidentemente, questi signori devono essere a digiuno.
Ed in attesa di capire che cosa accadrà, si perde il conto di parole ed espressioni allarmanti che non fanno altro che alimentare ulteriormente il vortice della tensione. “Fascisti”, “genocidio”, “colpo di stato” e via discorrendo. La prima cosa di cui il Venezuela avrebbe disperatamente bisogno è senz’altro un dizionario.
* Romeo Lucci è lo pseudonimo di un giornalista e docente universitario italiano che vive da anni a Caracas.
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