di Angelica Stramazzi*
Il Foglio di Giuliano Ferrara l’ha ribattezzata “Guida galattica al Cav e al suo liberalismo fiducioso”. Ma l’ultimo testo del professor Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea e vicedirettore della School of Government dell’Università Luiss “Guido Carli” di Roma, è certamente qualcosa di più. Ne “Il berlusconismo nella storia d’Italia” – questo il titolo del testo edito da Marsilio, pp.214 – è racchiuso il tentativo – senza dubbio ben esplicitato, stando a quanto emerge dall’opera – di valutare la ventennale esperienza dell’ex premier al potere, adottando un approccio di tipo storiografico – o storico, che dir si voglia – e non già, come è stato fatto finora, prettamente politologico. Orsina ripercorre, con dovizia di particolari, l’ascesa, il consolidamento e il declino del berlusconismo, contribuendo a smantellare i non pochi luoghi comuni che sono stati avanzati in questi anni. Come quelli relativi all’elettore berlusconiano, generalmente considerato più attento agli spot della tv commerciale che non alla sostanza – e all’essenza – del messaggio politico vero e proprio. Crollano anche le non verità su Forza Italia, vista dai più alla stregua di club elettorale, che per scelta non optò mai per un radicamento territoriale. Orsina offre al lettore una ricostruzione storica attenta, precisa e puntuale, libera da giudizi e soprattutto da pre-giudizi, con il solo obiettivo di donare alla ricerca in materia un validissimo contributo da cui, in futuro, non si potrà prescindere.
Spinning Politics ha intervistato in esclusiva l’autore.
Professor Orsina, come e quando nasce l’idea di scrivere un libro sul berlusconismo, adottando un approccio più storico che politologico?
Nasce alla fine del 2011, all’indomani della caduta del quarto governo Berlusconi. Ho cominciato allora a lavorare a un saggio sulla destra dopo il 1994 per una storia delle destre nell’Italia repubblicana che stavo curando, e che uscirà fra breve. Dato il clima politico complessivo, fin dall’inizio questo saggio ha preso la forma di un tentativo di comprendere il berlusconismo nella sua parabola – che allora pareva davvero giunta a conclusione – e nella sua collocazione all’interno della storia d’Italia. Via via che scrivevo il saggio, che doveva essere di poche decine di pagine, è venuto crescendo, ma malgrado fosse ormai diventato lunghissimo era pieno di vuoti e di passaggi solo accennati ma non sviluppati. Da qui l’idea di farne un libro, che è venuto molto diverso dallo scritto iniziale ma ne ha conservato la tesi di fondo. Tesi che secondo me continua a reggere malgrado nel frattempo il Cavaliere sia tornato a cavallo…
Quali difficoltà ha incontrato lungo il suo percorso di ricostruzione del ventennio berlusconiano?
Due difficoltà principali, direi. Una me la sono andata a cercare: è ancora molto presto per scrivere storia di eventi così recenti. Ci vorranno anni e anni per “digerire” il berlusconismo, e in particolare per valutarne l’attività di governo – della quale nel libro ho scelto di non parlare, proprio per questa ragione. La seconda sono gli stereotipi della letteratura esistente. I libri su Berlusconi, il berlusconismo, l’elettorato berlusconiano sono molto critici e, con qualche eccezione, alquanto monocordi. Il punto non è naturalmente che non si possa essere critici di Berlusconi: è che l’atteggiamento critico, quando è troppo spinto e pregiudiziale, rende difficile la comprensione. Lo sforzo per superare questi stereotipi è stato talvolta assai faticoso.
Nel testo lei definisce il berlusconismo un’emulsione di liberalismo e populismo. Potrebbe spiegarci le ragioni che l’hanno portata a questa valutazione?
Ho cominciato a scrivere questo libro pensando che il berlusconismo fosse un fenomeno complesso. Nello scriverlo mi sono accorto che mi ero sbagliato: il berlusconismo è stato un fenomeno molto complesso. È durato a lungo ed è mutato nel tempo. Ha usato svariati registri ideologici e comunicativi. Ha governato per anni. In particolare, era evidente il carattere populista della leadership berlusconiana: la “santificazione” del popolo italiano, la critica del professionismo politico, il “ghe-pensi-mì-smo”, l’uso della TV, l’impazienza nei confronti dei lacci e lacciuoli, un atteggiamento complessivamente semplicistico di fronte ai problemi storici. Allo stesso tempo, però, questi stessi temi, se osservati da un punto di vista differente, e anche altri argomenti della retorica berlusconiana, erano molto semplicemente temi liberali – seppure di un liberalismo di estrema destra. Individuare l’equilibrio fra questi elementi, mescolati gli uni agli altri ma distinti, non era facile. La formula dell’emulsione mi ha consentito di conservare un giudizio – spero – equilibrato e fedele di fronte a questa commistione ideologica complessa.
Troppo spesso l’elettore di Berlusconi è stato identificato tout court con la casalinga di Voghera o con il telespettatore di Canale 5, ma la sua ricerca pare smentire queste generalizzazioni. “Il voto berlusconiano – si legge nel testo – si è fondato pure e soprattutto su considerazioni di natura politica, ideologica e morale”. E’ ancora così, per coloro che, nelle ultime elezioni del febbraio scorso, hanno scelto il Cavaliere e la sua coalizione di riferimento? Oppure è cambiato qualcosa rispetto al passato?
È stato assolutamente ancora così. Quello che è cambiato rispetto al passato – ma è cambiato già nel 2006, non è una novità del 2013 – è l’accentuazione robusta del carattere per così dire negativo del voto a Berlusconi. Nel 2001 molti elettori hanno votato il centro destra perché credevano, seppure magari in maniera tiepida, nella promessa di Berlusconi di risolvere i problemi dell’Italia. Dal 2006 invece il voto di centro destra è stato un voto dato prevalentemente “contro”: malgrado le delusioni, molti ritenevano comunque che Berlusconi rappresentasse ancora l’opzione meno peggiore sul mercato politico. Nel 2013, nonostante le delusioni a quel punto si fossero moltiplicate, nessuno è tuttavia riuscito a parlare a una parte consistente dell’elettorato berlusconiano: non Grillo, non Monti, men che meno Bersani.
Nel testo lei fa spesso riferimento, nel tentativo di spiegare il berlusconismo, all’esperienza di Giannini e dell’Uomo Qualunque. Quali sono le analogie e le differenze – se ci sono – con FI prima e con il Pdl poi?
Le analogie storiche sono sempre complicatissime. A ogni modo, direi che l’analogia principale è di natura ideologica: l’idea che gli “uomini qualunque” che formano il paese siano migliori delle istituzioni pubbliche, della classe politica e anche degli intellettuali, e vadano lasciati campare in pace. La principale differenza invece è di natura storica: quando agisce Giannini, fra il 1945 e il 1948, la democrazia dei partiti non è ancora stata messa alla prova. Berlusconi invece arriva dopo il fallimento di quella democrazia.
Il tema della leadership resta centrale in tutta l’esperienza berlusconiana. Come mai invece la sinistra italiana non riesce a trovare una sintesi tra le diverse correnti interne, indicando un leader riconosciuto ed apprezzato da tutti?
La sinistra italiana pare avere un problema non piccolo non con questo o quel leader, ma con l’idea stessa di leadership. A sinistra, l’apparato organizzativo e l’idea di partito provenienti dalla tradizione comunista sono riusciti a sopravvivere a Tangentopoli. Per la sinistra questa è stata una fortuna, ma anche una sfortuna. Una fortuna, perché le ha dato cultura e struttura in un momento di desertificazione culturale e strutturale della politica. Una sfortuna, perché la crisi di Tangentopoli ha portato l’Italia di colpo fuori del Novecento, e quindi quella cultura e quella struttura erano ormai superate dalla storia. Da qui la straordinaria capacità di tenuta della sinistra nei suoi territori tradizionali, ma anche la sua incapacità di allargare il proprio richiamo al di fuori di quei territori.
Lei ipotizza che il berlusconismo sia finito dopo le elezioni regionali del 2005 e le politiche del 2006; a suo avviso, quella attuale sarebbe un’età residuale, l’età – come la chiama lei – del Berlusconi privo del berlusconismo. Cosa prevede per l’immediato futuro, anche in vista dei pronunciamenti giudiziari che sono avvenuti e che avverranno a breve?
Caos. Il centro destra italiano resta terribilmente dipendente da Berlusconi. Anzi: lo è ancora di più oggi di quanto non lo fosse fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo. Berlusconi ha svolto un’incredibile opera di supplenza in un mondo del tutto carente di cultura, classe dirigente, organizzazione. Sotto la sua supplenza, però, è cresciuto ben poco. Non so davvero quanto di quel poco riuscirà a sopravvivere all’uscita di scena del Cavaliere, quando che sia. Anche perché in quel poco vedo magari un po’ di consapevolezza astratta del caos che verrà, ma non molte azioni concrete e reali per prepararvisi.
Pare che un nuovo progetto di partito sia allo studio dello stesso Berlusconi. Secondo lei, cosa non dovrebbe mancare nel futuro movimento berlusconiano?
Non dovrebbe mancare … un partito. È evidente che senza un altro leader efficace il centro destra non va da nessuna parte. Chiunque altro, però, non potrà non avere tutti i difetti della leadership berlusconiana, mentre certamente non potrà averne tutti i pregi. Se si vuole fare politica seriamente, e sul medio-lungo periodo, temo che non ci siano scorciatoie: c’è bisogno di radici sul territorio, un po’ di cultura, e soprattutto una classe politica di livello accettabile. Il mio non è un inno al Partito comunista d’antan: come ho detto, quella stagione è passata per sempre, e per tanti versi è bene che sia passata. Non possiamo però buttar via il bambino con l’acqua sporca. C’è bisogno almeno di strutture che selezionino il personale politico sul territorio in maniera accettabilmente meritocratica, e che producano qualche idea.
Ci dica in breve due qualità e due difetti che hanno caratterizzato il personaggio Berlusconi.
Una qualità e un difetto, che però sono inseparabili l’uno dall’altra come le due facce della stessa medaglia. La qualità: Berlusconi è un fuoriclasse assoluto, un personaggio straordinario e irripetibile. Il difetto: proprio perché è un fuoriclasse, chiunque altro trova spazio soltanto in relazione a, e in dipendenza da, lui. Nel mio libro ho sostenuto che ci sia stato, dopo il 2006, un Berlusconi senza berlusconismo. Quello che pare proprio impossibile, invece, è che vi sia un berlusconismo senza Berlusconi.
*Contributo già apparso on line sul sito Spinning politics
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