di Renata Gravina

Zachar Prilepin personaggio complesso della generazione «Bolotnaja» ha incarnato più ruoli. Come ex membro degli Omon, corpo speciale dell’esercito russo in Cecenia, come pugile ma anche come redattore e non da ultimo come antiputiniano nella prospettiva di seguace del partito nazionalbolscevico. La sua esperienza in Cecenia è raccontata attraverso Patologie, un romanzo che mescola guerra e relazioni umane intrecciate in un’unica, confusa metafora di cruda disperazione bellica. La sfida lanciata a Putin è invece dipanata nel suo ultimo romanzo, Sank’ja (Zachar Prilepin, Voland, 2011).

«Questo paese ha bisogno di una rivoluzione» : il caos voluto dal Sank’ja di Prilepin è innanzitutto ideale. È stravolgimento e battaglia contro un sistema governativo che al contempo propone una Russia addormentata sotto una valanga di cibo, assuefatta dai fumi dell’alcol ed una patria che striscia banalmente con i suoi frutti verso la morte, senza pesare di generazione in generazione sulla storia dello Stato. É una rivoluzione a fasi alterne tra due antagonisti perdenti da subito. Da un lato i fautori della necessità della storia, i rosso-bruni che difendono la dignità dell’essenza storica russa, dall’altro lato i molli credenti nella fede divina che con essa aderiscono ad una stanca rassegnazione che è politica e sociale. Il romanzo procede tra scontri e dialoghi con una falcata sempre più cruda e sanguinolenta entro i meandri della rivolta che si dipana di capitolo in capitolo alla ricerca della distruzione dell’altro, della confusione dell’io interiore e del nemico esteriore. Come riconoscere l’altro quale nemico? Con Prilepin l’oggetto della distruzione ideale e fisica è racchiuso nella rappresentazione del governo e con esso delle sue radici. Un governo che si limita a segnare gli argini di un suolo entro il quale individui come fantasmi di una realtà sfumata nottetempo eseguano il diktat del loro essere originario. La realtà attuale della Russia è posta di fronte a se stessa e a prescindere da luogo e tempo deve riconoscere gli orrori di coloro che definisce come propri capi.

«Lasciate che la gente viva tranquilla nel proprio buco». Il senso di appartenenza nei confronti dello Stato è oggi rievocato nel manifesto della democrazia sovrana di Putin che rivela il quantum di sottomissione dei singoli all’autorità. L’appartenenza alla moglie russa è metafora di una compagna scelta e riconosciuta, inscindibile dalla vita del singolo e sufficiente a spiegare ai nemici di Sank’ja il motivo del loro «stare». Senso di giustizia e dignità sono invece i principi dei rosso-bruni ai quali Sank’ja resta fedele, danzando entro i termini di un’etica che di fatto sovrasta l’essenza. Quella stessa etica infine schiaccia i personaggi, rosso-bruni, rivoltosi, cavalieri perdenti perché privi dello sfondo culturale per muoversi entro lo Stato muniti di armatura. Sank’ja ed i suoi sono soffocati dalla generalità della loro stessa lotta per un ideale, così restano privati della loro individualità a favore della rivolta totale. La rivoluzione di San’kja rispecchia il senso erroneo della rivolta del gruppo non contro un ordine governativo ingiusto che canalizzi un’essenza banale ma entro i binari della storia che si rivelano gli stessi strumenti riconosciuti dagli antagonisti. La lotta sembra ridursi allo scontro tra l’assuefazione atarassica verso un sistema radicato e l’entropia forzata. Cosi’ la rivoluzione resta un eterno «tutto stava per concludersi… e non sarebbe finito nulla, tutto sarebbe proseguito così e solo cosi’…».

La forza della scrittura di Prilepin sta nell’utilizzo di una crudezza nelle descrizioni belliche che s’intrecciano con i sentimenti anch ‘essi «bellicizzati» senza spazio né tempo, in un delirio letterario che trascina anche nel vortice politico. Il limite di quest’ultimo è la perdita di se stesso nei ranghi della storia e nelle file di una rivolta totale, come la definisce l’autore, a perdere, poiché «nessuno in questo paese… vuole sentir parlare di rivoluzione».

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