di Damiano Palano

Secondo una leggenda che circola da anni – e che è stata ripresa fra l’altro anche da Massimo Mucchetti (nel suo Licenziare i padroni?, Feltrinelli, Milano, 2003) – la conclusione del «regime partitocratico» della Prima Repubblica non sarebbe stata decisa né nelle aule dei Palazzi di Giustizia, né tantomeno dagli elettori italiani, bensì da una riunione di esponenti della finanza internazionale e del mondo imprenditoriale italiano. Al largo di Civitavecchia, a bordo del Britannia, il panfilo della famiglia reale inglese, il 2 giugno del 1992 si sarebbe infatti svolta una riunione fra emissari di grandi banche d’affari – come Morgan&Stanley, Goldman Sachs, Schroeders, JP Morgan, e Credit Suisse – e rappresentanti delle élite italiane, fra cui dirigenti di imprese pubbliche, vertici di istituzioni bancarie e un solo uomo politico. Proprio in quel contesto – secondo questa versione – sarebbe stata decisa la ‘vendita’ dello Stato italiano, o quantomeno la ‘svendita’ di alcuni dei suoi pezzi più pregiati. E, in effetti, solo un mese dopo, il 2 luglio 1992, secondo quanto ha ricordato Natalino Irti, nello studio dell’allora Ministro dell’Industria Giuseppe Guarino, «in tre ore fu elaborato il testo del decreto-legge, che convertì Iri, Ina e Imi da enti pubblici in società per azioni» («Il Sole – 24 Ore», 18 gennaio 2004). E pochi giorni dopo iniziò in effetti la vera e propria ‘Tangentopoli’.

La leggenda del complotto del Britannia è solo un episodio di quella «ossessione del complotto» che contrassegna quasi costantemente il dibattito pubblico italiano, e cui si ricorre invariabilmente per spiegare quasi ogni ‘mistero’, non solo politico (una rassegna, che arriva sino alla nascita del governo Monti, viene per esempio condotta da Leonardo Varasano sul numero 1/2012 della «Rivista di Politica», all’interno di una sezione monografica dedicata all’immaginario dei complotti e delle cospirazioni, con saggi di Richard Hofstadter, Raoul Girardet, Roberto Valle e Alessandro Campi). Anche in questo caso è naturalmente troppo semplice spiegare la fine della Prima Repubblica con la riunione del Britannia. Non tanto perché quella riunione non sia effettivamente avvenuta, quanto perché le motivazioni di fenomeni come ‘Tangentopoli’ o la stessa fine del regime dei partiti della ‘Prima Repubblica’ sono senz’altro più complesse. Ma, ciò nonostante, è chiaro che proprio in quei mesi che vanno dalla primavera del 1992 alla fine del 1993 si registra un sommovimento profondo nella società italiana. In quei mesi, vengono al pettine una serie di nodi irrisolti, e, soprattutto, prende forma una nuova geografia del potere reale. Il mutamento non consiste soltanto nel nuovo assetto che assume il sistema dei partiti dopo il 1994. Probabilmente, anzi, quella trasformazione rischia di oscurare qualcosa di più profondo che avviene nella società italiana, qualcosa che riguarda la genesi di gruppi di interesse che, nell’arco di pochi mesi, riescono ad accumulare risorse strabilianti e che, nei vent’anni successivi, riusciranno a incidere sulla effettiva ‘costituzione materiale’ della Seconda Repubblica e sulle grandi scelte politiche del paese.

Quei mesi sono al centro di Assalto alla diligenza. Il bottino delle privatizzazioni all’italiana (Guerini e Associati, pp. 259, euro 16.50), un volume di Gianluigi Da Rold, storico giornalista del «Corriere della Sera» e tra i fondatori nel 1978, insieme a Walter Tobagi, di «Stampa Democratica». Assalto alla diligenza propone una ricostruzione delle tappe con cui si giunge alla ‘privatizzazione’ di alcune importanti aziende pubbliche. L’analisi retrospettiva di Da Rold è evidentemente alimentata da una vena polemica – per non dire un dichiarato risentimento – nei confronti di alcune forze politiche e di specifici attori economici, considerati come responsabili della criminalizzazione di capaci manager di Stato, oltre che di uomini politici come Bettino Craxi. Anche se questi motivi politici possono legittimamente far insospettire tutti quei lettori che considerano ‘Mani Pulite’ come un momento complessivamente positivo della vita italiana e la vecchia «partitocrazia» come l’architrave di un regime ‘cleptocratico’, gli elementi messi in fila nel libro di Da Rold non possono comunque passare inosservati, perché offrono un contributo importante sia a un ripensamento della parabola della Seconda Repubblica, sia – più in generale – a una ricostruzione della genesi del contemporaneo declino italiano.

Alle radici delle grandi privatizzazioni ci sono, al principio degli anni Novanta, quei fattori politici che preludono al tracollo del vecchio sistema partitico, tra cui l’ascesa della Lega Nord, la trasformazione del Partito Comunista Italiano, l’attivismo della magistratura. Ma ci sono anche elementi di inquietudine che coinvolgono i «poteri forti», sia perché i conti pubblici italiani appaiono sempre più problematici, sia perché il Trattato di Maastricht segnala come la stagione degli aiuti di Stato alle imprese sia ormai giunta al termine. Ma, accanto a questo, entra nell’occhio del ciclone un profilo specifico dell’economia italiana, ossia quello delle grandi aziende pubbliche e di enti come l’Eni, l’Iri e l’Efim, in alcuni casi nati dopo la crisi del ’29 e in seguito diventati i simboli dell’«economia mista» italiana. Proprio questo patrimonio diventa ben presto il bersaglio di un clima di opinione che – sull’onda del «nuovo che avanza» – si indirizza sia contro la classe politica, sia contro un’industria pubblica rappresentata come un luogo di saccheggio delle risorse pubbliche. «Sostanzialmente», scrive Da Rold, «il messaggio che arriva al grande pubblico è quello di una classe politica profondamente corrotta, che letteralmente saccheggia l’apparato industriale statale, con la complicità dei manager pubblici, e che impone balzelli ai ‘bravi’ industriali privati» (p. 31). Allo smantellamento dei partiti, viene così ad affiancarsi – come logica conseguenza – la vendita delle industrie pubbliche: «Da questa analisi schematica nasce come risposta immediata l’urgenza di privatizzare, di smantellare il colosso industriale pubblico, di mettere in vendita le aziende dei grandi enti di Stato. Su quest’ultimo punto, che è realmente nevralgico, il dibattito mediatico si limita solamente a delle enunciazioni, a un dato di fatto inevitabile e scontato» (p. 32). Da allora, la consapevolezza su come si è svolto effettivamente il processo di privatizzazione, su chi ha guadagnato e chi ha perso, oltre che sulle conseguenze che in termini di competitività si sono pagate, non ha fatto un passo in avanti, ed è proprio nel tentativo di rischiarare questo ‘buco nero’ della coscienza italiana che Da Rold cerca di mettere ordine.

Il ‘romanzo giallo’ delle privatizzazioni italiane comincia in realtà alcuni anni prima della fine della Prima Repubblica, nell’aprile del 1985, quando l’allora presidente dell’Iri, Romano Prodi, firma un precontratto di vendita con Carlo De Benedetti. Al centro del precontratto è la cessione di Buitoni e Perugina, in quel momento proprietà della Sme, una finanziaria dell’Iri. In realtà, il precontratto non si trasforma in un vero contratto per l’opposizione del governo di allora, presieduto da Bettino Craxi, un’opposizione dovuta sia all’assenza di trattative con eventuali altri attori, sia all’importo piuttosto esiguo (circa 500 miliardi di lire, contro gli oltre 2 miliardi realizzati alcuni anni dopo). Il nome di Prodi ricorre anche in seguito nel libro di Da Rold. In effetti, nel maggio del 1993, Prodi viene chiamato nuovamente a presiedere l’Iri dopo Franco Nobili, e certo ha un ruolo non irrilevante nel determinare la cessione delle tre componenti in cui viene divisa la Sme (anche perché la vendita finisce con l’andare a beneficio di Unilever, una multinazionale per cui Prodi ha svolto fino a poche settimane prima il ruolo di consulente). I più grandi affari delle privatizzazioni sono comunque legati alla telefonia. Nel 1997, la cessione della linea telefonica delle Ferrovie dello Stato (destinata a diventare Infostrada), dopo molte incertezze, e dopo l’incarcerazione dell’amministratore delegato delle FS, Lorenzo Necci, viene ceduta al gruppo De Benedetti (cui peraltro era stata già assegnata la seconda concessione per la telefonia mobile). Come noto, Infostrada rimane solo per pochi mesi nelle mani di De Benedetti, perché – dopo essere acquistata per settecentoquaranta miliardi di lire (pagabili in quattordici anni) – viene venduta al gruppo Mannesmann per quattordicimila miliardi (senza rateizzazioni), finendo nel 2000 all’Enel per un importo di circa undici miliardi di euro. Sempre in quello stesso periodo, si forma però anche Telecom Italia, dalla fusione di Italcable, Telespazio, Sirm e Sip, in vista della privatizzazione. Nel 1999, sotto il governo presieduto da Massimo D’Alema, la Olivetti conquista la Telecom con un’offerta pubblica di acquisto, mediante la Tecnost di Roberto Colaninno, anche se meno di due anni dopo Telecom passa ancora di mano, giungendo alla Pirelli di Tronchetti Provera e al Gruppo Benetton. Non meno rilevanti, soprattutto per i riflessi economici, sono anche le cessioni di rami dell’Eni, fra il 1996 e il 1998, la ‘liquidazione’ dell’Efim (l’Ente Finanziamento Industria Manifatturiera) e, infine, la privatizzazione delle banche. Fino al 1992, lo Stato controlla infatti più del settanta per cento degli istituti di credito italiani, ma nell’arco di alcuni anni questo patrimonio – rappresentato per esempio dalla Banca Commerciale Italiana, dal Credito Italiano, dalla Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde – viene privatizzato a ritmi serrati, contestualmente a una serrata deregolamentazione. Naturalmente, la privatizzazione di questi istituti di credito si inserisce all’interno di una visione economica sempre più lontana da quella che aveva ispirato l’ingresso dello Stato nel settore bancario e in seguito il modello dell’«economia mista» postbellica. La convinzione che quelle scelte siano opportune, e doverose per rafforzare la competitività del ‘sistema-paese’, non è pertanto un’eccezione italiana, e dopo la crisi del 2008 si può ovviamente dubitare degli effetti positivi di quelle ricette. La domanda che pone Da Rold è però diversa, perché si chiede se – al di là dell’opportunità stessa delle privatizzazioni – queste ultime abbiano comportato un vantaggio, o non si siano risolte in una sorta di ‘svendita’ di fine stagione. E, da questo punto di vista, la conclusione di Da Rold è piuttosto netta, non solo per gli introiti delle merchant bank britanniche, incaricate della collocazione in borsa, ma, più in generale, perché queste privatizzazioni non hanno prodotto nessuno di quegli effetti positivi che, in termini concorrenza, ci si attendeva. D’altronde, le privatizzazioni bancarie si sono realizzate in Italia alla vigilia di un imponente processo di concentrazione nel settore finanziario a livello globale, un processo che peraltro le conseguenze della crisi economica sono destinate a intensificare nei prossimi anni. Per quanto concerne l’Italia, il resoconto che fornisce Da Rold non lascia comunque adito a dubbi sul fatto che le privatizzazioni – al di là degli effetti politici – non abbiano in alcun modo portato a una ‘liberalizzazione’ del sistema del credito: «dal 1987 a 2000 il numero delle banche è sceso da 1.200 a 864 e, soprattutto, alla faccia della concorrenza, della liberalizzazione e delle public company, si sono costituiti verso la fine degli anni Novanta cinque gruppi che, da soli, controllano quasi il 50% del mercato del credito: Unicredit, Intesa BCI, San Paolo IMI, Banca di Roma e Montepaschi. […] prima della grande crisi del 2008, Unicredit si è fuso con Capitalia, cioè ex Banca di Roma, Intesa con San Paolo. Quindi sono rimasti tre poli» (p. 122).

Sulla base di tutti questi elementi, la valutazione di Da Rold non può che essere fortemente negativa. Probabilmente, le partecipazioni statali erano effettivamente destinate a essere superate da un nuovo quadro economico internazionale, un po’ come le diligenze del vecchio West furono condannate dall’incedere della strada ferrata. Ciò nondimeno, non si trattava di una diligenza così inefficiente e così sgangherata come molti opinionisti, politici e giornalisti fin troppo compiacenti vollero descriverla, anche perché fu in gran parte l’unico soggetto in grado di fare scelte di sistema, in presenza di un tessuto economico storicamente contrassegnato da una grande impresa assistita e da una miriade di piccole e medie imprese, certo competitive in alcuni settori, ma del tutto incapaci di fronteggiare il peso di mastodonti che operano per esempio nel settore chimico. Così – e questa è la conclusione di Da Rold – «la diligenza delle Partecipazioni Statali, ormai molto impolverata, non fu collocata con onore in un museo, magari a un prezzo conveniente, ma fu letteralmente assaltata, con uomini dello Stato che si spartivano il bottino per fare cassa con alcuni privati che, inserendosi nell’assalto, fecero profitti incredibili, acquistando dalla svendita statale e poi rivendendo a prezzo da capogiro. Se si considera l’operazione complessiva della privatizzazione, dello smantellamento dell’imprenditoria pubblica, con tutti i suoi risvolti finanziari, imprenditoriali, politici e giudiziari, il termine svendita è riduttivo. Quello fu un assalto. Un vero assalto alla diligenza compiuto con mezzi ufficialmente leciti da uomini dello Stato, da grandi banche d’affari americane e da alcuni privati, ‘amici degli amici’, che beneficiarono ampiamente dell’operazione di spartizione del ‘bottino’» (p. 127).

È probabile che il giudizio così severo di Da Rold debba apparire inquinato, in modo sospetto, da quello che trapela dalle sue pagine come un nostalgico rimpianto, non tanto della classe politica della Prima Repubblica, quanto proprio delle Partecipazioni Statali, divenute invece nel linguaggio comune qualcosa di equivalente a una mostruosità antidiluviana. In questo senso, il ritratto che emerge da Assalto alla diligenza può inoltre sembrare nutrito da una polemica un po’ troppo unidirezionale, perché è evidente che i bersagli privilegiati sono prevalentemente uomini del centro-sinistra, come Massimo D’Alema, o autentiche istituzioni, come l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, o personaggi ormai indirizzati verso il Quirinale, come Giuliano Amato e Romano Prodi. In questo senso, la lettura di Da Rold tenta probabilmente di riequilibrare il dibattito sul ‘ristagno’ italiano contemporaneo, che tende ad assegnare le responsabilità delle difficoltà economiche politiche ai governi di centro-destra degli ultimi dieci anni. Ma, al di là di questi aspetti, il ragionamento ha solide fondamenta, perché le radici di molti problemi odierni – che ovviamente rimandano anche agli anni Ottanta, se non molto più indietro – affondano davvero negli anni Novanta, e in particolare in quel biennio che segna il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. È infatti proprio in quella fase che, per molti versi, si conclude la vicenda della Costituzione del 1948, perché – al di là di una continuità formale – i soggetti reali della dinamica diventano altri, e persino quelli che conservano un’identità apparentemente stabile, come i sindacati confederali, mutano considerevolmente la loro funzione. È proprio in quella fase che si creano nuovi blocchi di potere, nuove geografie di alleanze, capaci di incidere in profondità sulle dinamiche politiche. Ed è in quel preciso momento che, per molti versi, inizia davvero il lungo declino economico dell’Italia: la smobilitazione di settori in cui si gioca la competitività di un sistema economico e lo smembramento di operatori in grado di agire sui mercati internazionali non viene infatti compensata né dall’emergere di nuovi attori privati, né da investimenti in ricerca e sviluppo. Di lì a poco, la moneta unica priverà l’Italia degli strumenti classici adottati in passato per riconquistare margini di competitività, e allora la via privilegiata per rendere ‘moderno’ il paese consisterà nella flessibilizzazione del mercato de lavoro: una strada che certo non segue solo l’Italia, ma che nel nostro paese viene percepita – dai governi di ogni colore – come l’unico strumento capace di rilanciare l’economia, e che finisce invece col produrre quel circolo vizioso in cui ci troviamo ancora oggi invischiati.

Non si tratta certo, da questo punto di vista, di rimpiangere la ‘cleptocrazia’ degli anni Ottanta, o le Partecipazioni Statali, o la Cassa del Mezzogiono, anche se è evidente che alcuni dei più bistrattati notabili democristiani, al confronto con molti esponenti della Seconda Repubblica, finiscono con l’apparirci oggi come dei giganti. Ma certo non si può non riconoscere come l’eredità più duratura dell’ondata antipolitica del ‘nuovo che avanza’ sia consistita nel logoramento di qualsiasi senso del ‘pubblico’, e forse persino delle basi di quel ‘senso dello Stato’ che pure costituisce l’ingrediente retorico di ogni commemorazione ufficiale e di tutti i moniti che le più alte cariche istituzionali non si stancano di lanciare quotidianamente. Se questo risultato può essere inteso come una conseguenza più o meno inevitabile della fascinazione liberista che ha segnato la Seconda Repubblica, è forse ironico osservare come la frenesia delle privatizzazioni abbia raggiunto le vette più elevate proprio alla vigilia di una radicale transizione geopolitica e della prepotente ascesa di un nuovo ‘capitalismo di Stato’, che tende a sottrarre potere alle grandi multinazionali occidentali per assegnarlo a nuovi giganteschi attori statali o ‘para-statali’, in Cina, Brasile, India, Russia e in altri paesi emergenti.

A distanza di vent’anni dall’incontro del Britannia, poco importa sapere se quel meeting sia avvenuto realmente, o se abbia avuto davvero il ruolo che le leggende gli hanno attribuito. D’altro canto, l’Italia non si limita a nutrirsi voracemente di complotti, ma – a dirla tutta – ordisce continuamente complotti e tentativi di cospirazione, dai più elevati vertici istituzionali fino alla più sgangherata assemblea di condominio. Ma quasi invariabilmente i progetti di complotto rimangono tali, o finiscono in burletta. E così non si può pensare che i destini di un’intera società siano davvero decisi da qualche burattinaio che muove i fili nell’ombra e che tutti gli altri soggetti non siano altro che passive marionette eterodirette. Ciò che invece caratterizza l’avvento della Seconda Repubblica è la debolezza totale della politica, che non seppe minimamente guidare un imponente processo di trasformazione economica.

Probabilmente è proprio a quel fatale passaggio storico che è oggi indispensabile tornare a guardare per comprendere la nostra storia più recente. Ma forse, è necessario meditare su quegli eventi anche per evitare che qualcosa di simile avvenga di nuovo. Perché in fondo tutto lascia presagire che proprio la debolezza della politica – una politica ormai pressoché inesistente, ridotta alla condizione di mucillagine – sia destinata a segnare anche la transizione dalla Seconda a quella che si profila ancora indistintamente come la prossima Terza Repubblica.