di Fabio Massimo Nicosia

I campionati europei in corso suggeriscono qualche considerazione su questo sport tanto amato da popoli di tutto il mondo.

Il mondo del gioco del calcio è un ordinamento giuridico completo, con tanto di giurisprudenza (gli orientamenti arbitrali), di dottrina (le discussioni sui mass-media a fine partita, che verificano pubblicamente la fondatezza delle scelte giurisprudenziali), e ovviamente di mercato. Poi si discute del “ruolo dell’arbitro”, sicché la conversazione si fa di filosofia politica: del resto, i bambini giocano da sempre a pallone senza bisogno di fischietti e guardalinee: ricoprono quei ruoli direttamente essi stessi, i piccoli giocatori, gridando: “fallo”, “rigore”, e di solito non ci sono grandi obiezioni.

Non c’è dottrina al mondo più popolare della discussione sulla partita di calcio, il che vorrà pur dire qualche cosa, ad esempio che ha qualcosa da insegnarci, oltre alla trasparenza: commentando una partita si parla pubblicamente di qualità dei giocatori, delle regole e della loro interpretazione, degli errori e delle disparità di trattamento, ma anche, senza barriere, di economia, di poteri occulti (di arcana imperii e di criptocrazia), di scelte politiche, in politica sportiva e non.

Secondo Wittgenstein, il gioco degli scacchi sarebbe una buona metafora della vita. Una metafora un po’ militarista, a badare al movimento dei “pezzi”. Migliore è la metafora del calcio, che differisce dagli scacchi non solo perché è bello da vedere, ma anche perché i calciatori, il corrispondente dei “pedoni”, scelgono autonomamente le proprie strategie tra infinite mosse a disposizione, pur in funzione, si presume, dell’interesse comune della squadra, e ogni loro atto non rappresenta necessariamente l’applicazione di una regola costitutiva. Il calcio è infatti, sì, un gioco, ma un gioco sportivo, o, per dirla all’italiana, “diportivo” (come è noto si fanno delle cose “per diporto”, ossia “per sport”). Come la pallacanestro e il rugby – un poco meno il baseball – in cui il giocatore si esprime in tutta la propria plasticità fisica e umana in ogni zona dell’esteso campo aperto di fronte a sé – carattere del gioco del calcio che ne rafforza l’attitudine metaforica nei confronti della vita umana in termini più marcati di quanto non avvenga ad esempio nel basket, con il suo terreno da gioco tutto sommato circoscritto; laddove il rugby appare troppo aggressivo e caotico, per rappresentare poco più di una parodia del vivere associato. Le regole del calcio sono lasche, e lasciano impregiudicata la più parte dei comportamenti; ogni giocatore, a differenza del pezzo degli scacchi, ogni volta che ha la palla può scegliere tra un’infinità di comportamenti materiali, che non possono essere qualificati utilizzando ilmero ricorso alle norme costitutive del gioco, come è invece possibile per gli scacchi.

Le azioni dei calciatori vengono definite più spesso in altro modo, ricorrendo al linguaggio della tecnica calcistica, che sono norme appunto tecniche, solo in parte condizionata dalle regole. Ad esempio, non posso toccare la palla con gli arti superiori, ma nonostante questo ho ancora infiniti punti del mio corpo, tutti leciti, tra i quali scegliere.

Le regole del calcio sono quindi improntate al criterio liberale, perché stabiliscono solo raramente quello che si deve fare, e assai più spesso quel che non si può fare, o, per meglio dire, a quali comportamenti devono seguire sanzioni. E già, perché nel calcio, a differenza che negli scacchi, l’atto illecito non solo è previsto, ma è anche spesso funzionale alla strategia del gioco. La maggior parte delle volte, il fallo è sottosanzionato dal regolamento, e finché non arrivino ammonizioni o espulsioni, esso si rivela non di rado vantaggioso per chi lo commette. L’illecito fa parte del gioco, e come tale viene tutto sommato accettato e messo in conto.

Nel calcio la distinzione tra analitico ed empirico è assai sfumata, come è sfumata la distinzione tra gioco e sport. Mentre negli scacchi ogni mossa è indefettibilmente applicazione di una regola (ma lo stesso accade in buona parte anche nel base-ball), nel calcio la più parte dei gesti è affidata alla fantasia e alla tecnica, che non è applicazione di norme vincolanti, ma appunto di norme tecniche: ossia, semplicemente, il prodotto dell’esperienza in ordine alla maggiore efficacia di alcuni atteggiamenti piuttosto che altri in funzione delle regole costitutive del gioco e dell’obiettivo dalle stesse indicato ai contendenti: vincere la partita, ma anche limitare i danni: Gianni Brera diceva che, in certi casi, a certe squadre conviene difendere lo 0-1.

Un “tiro in porta” non è mai imposto dalla regola, anche se la regola lo qualifica, ma è sempre il frutto di una libera scelta in funzione delle conseguenze istituzionali attese: cercare di segnare un goal. Infatti il giocatore è liberissimo di scegliere di non tirare e di passare la palla a un compagno arretrato, senza che la regola abbia a soffrire di ciò: basta che non lo faccia con le mani, perché in tal caso sarebbe “fallo”, o addirittura un gioco diverso (la “pallamano”?).

Negli scacchi le mosse hanno dei vincoli a priori, e sono a limitata discrezionalità: il giocatore ha ogni volta di fronte a sé un numero limitato di mosse possibili, tra le quali scegliere.

L’alfiere si muove solo in diagonale; il calciatore ha invece sempre infiniti movimenti a disposizione tra i quali scegliere. Nel calcio, infatti, i limiti sono solo negativi (ti è dato solo quel che non puoi fare), e la discrezionalità è molto più ampia, in funzione dell’azione altrui. In un gioco, le due azioni si influenzano reciprocamente, e segnano l’una i limiti di adeguatezza dell’altra. Poi, nel corso del gioco della vita, occorre capire se si stia giocando a “scacchi” o a “calcio”, per comprendere i limiti di fatto posti alla nostra azione, e quali siano le sanzioni verosimilmente temibili. Perché se giochi a scacchi, l’errore può rappresentare l’esaurimento del gioco, mentre a calcio c’è spesso tempo per rimediare.

Negli scacchi la violazione della regola forse non è nemmeno concepibile, perché può voler significare che non stai nemmeno proprio giocando, o che hai buttato all’aria la scacchiera.

Il calcio conosce del resto numerose regole formali fini a sé stesse, prive di valenza retributiva o di incentivo. La regola fine a sé stessa è la mera regola di garanzia, un nodo procedurale da superare, come la prova in una caccia al tesoro. Che senso ha, ad esempio, far ripetere un calcio di rigore segnato, se un compagno di squadra è entrato in area? Quell’ingresso è ininfluente (non lo sarebbe stato se il portiere avesse respinto il pallone), non supererebbe alcuna “prova di resistenza” in un giudizio amministrativo, e tuttavia la regola esiste, anche se non è sempre applicata. O annullare un goal per fuorigioco passivo, come accadeva un tempo? O non concedere direttamente il goal in caso di fallo di mano commesso sulla linea di porta, che invece si rivela essenziale atto difensivo, visto che impedisce il goal certo e consente di sperare che il rigore sia sbagliato?

E’ il problema dei vizi formali. Spesso si lamenta un eccesso di garantismo, e si è proposta la categoria dell’“iperprotezione” (Follieri), per definire situazioni di interesse che, apparentemente poco meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, vengono invece avvantaggiate nel corso del gioco, e in particolare nel processo, senza convincente motivo. All’iperptrotezione corrisponde un’iperpunizione, come nel rigore concesso per un fallo compiuto ai margini dell’area in una situazione non pericolosa. Un altro caso di ipo-protezione è rappresentato dalla regola generale, secondo la quale, in caso di pareggio, le due squadre non si ripartiscono l’intera posta come un tempo (un punto a testa su due), ma ottengono un solo punto a testa sui tre disponibili, con esito chiaramente inefficiente, dato che un terzo della posta non viene nemmeno assegnato. Potrebbe perciò proporsi, da un lato, di mantenere l’attuale assegnazione di tre punti per la vittoria, in quanto rispondente a un’effettiva esigenza di incentivo; ma al contempo di assegnare 1,5 punti a squadra per il caso di pareggio, di modo che nulla del pomeriggio vada sprecato. Oltretutto, si verrebbe così a determinare un maggiore incentivo per la squadra momentaneamente soccombente, dato che la prospettiva della conquista dell’unico punto previsto per il pareggio potrebbe non essere stimolo adeguato, data la scarsa differenziazione di punteggio rispetto al caso della sconfitta

Un’altra regola del gioco del calcio che alla prova dell’esperienza si è rivelata assurda è quella del fuori gioco (off-side). A pensarci bene, infatti, è umanamente impossibile per un guardalinee individuare l’effettiva sussistenza di quella posizione, coi giocatori in movimento e che s’incrociano a “grande” velocità, sicché il fuori gioco, quando c’è, è di pochi centimetri o addirittura di millimetri, tant’è che sovente nemmeno la moviola risolve i casi dubbi. E’ del tutto irrazionale tenere in piedi una regola inapplicabile, che giuridicamente andrebbe considerata nulla o inesistente per inattitudine all’effettività; fonte di contese, di arbitrii e, molto verosimilmente, di corruzione. Tant’è che le indicazioni, se non andiamo errati, FIFA, sono nel senso che, “in caso di dubbio”, il fuorigiuoco non vada segnalato: ma, presa alla lettera, siffatta direttiva comporta l’abrogazione non solo virtuale, ma effettuale, della norma, dato che i casi, nella quale sarebbe astrattamente applicabile (ossia tutti i casi di off-side), sono dubbi a stare cauti al 90%.

Val la pena peraltro di accennare all’irrazionalità anche intrinseca della regola, che non tutela alcun interesse meritevole, dato che non vi sarebbe alcun detrimento nel gioco a consentire azioni in profondità, con scatti anticipati da parte degli attaccanti (si pensi ad Inzaghi, che pure è un mangiapalloni); sarà piuttosto cura dei difensori di indietreggiare (e non di rimettere in giuoco gli avversari, come mi è capitato di osservare in qualche occasione: altra fonte di corruzione), e di farsi trovare pronti allo scatto, piuttosto che impostare un’intera tattica di gioco in termini parassitari e ostruzionistici (la c.d. tattica del fuorigioco, cara ad Arrigo Sacchi e a Franco Baresi).

Altra regola inefficiente, tra le innovazioni introdotte negli ultimi decenni, è quella del goal in trasferta che vale doppio nelle coppe internazionali e nazionali. Se pure la ratio della norma poteva avere un senso –per quanto erroneo, dato che l’obiettivo nel calcio è di vincere, e non di segnare molti goals-, ossia quello di incentivare le segnature, alla lunga l’innovazione si è dimostrata controproducente, in quanto determina la conclusione anticipata di fatto di molte partite, e così il calo di interesse del mercato nei loro confronti. In effetti, immaginando che una partita si sia conclusa all’andata sullo 0-1, la momentanea vittoria per 1-2 dell’altra squadra nell’incontro di ritorno chiuderebbe di fatto la partita, dato che alla momentaneamente soccombente occorrerebbe segnare ben altri tre goals per potersi assicurare il passaggio del turno o la vittoria del trofeo. Se poi immaginiamo che tale situazione si sia consolidata a diciamo 20-25 minuti dalla fine della partita, ben si comprende lo spreco di risorse e il crollo di attenzione che ciò comporterebbe, e di fatto molto spesso comporta, operando di fatto come un golden goal (altra pessima invenzione, a tacere del grottesco silver goal)..

Ma, se vogliamo consolarci, possiamo dire che il motivo è proprio che si tratta di un giuoco, e non sempre le regole di un gioco rispondono a una logica univoca, perché un gioco, soprattutto se agonistico, comporta o fotografa un conflitto di interessi, che le regole non possono non riflettere, anche se fan ciò spesso in termini del tutto arbitrarii. Se attorno a un illecito vi sono perciò delle regole, ciò significa che il reo ne soffrirà, ma in parte se ne avvantaggerà, ed è questo un piccolo segno di laicità: in fondo, non essere beccati significa quantomeno che la società ha altro di cui occuparsi, prima di porre al centro dell’attenzione pubblica i tuoi casi personali: parafrasando Oscar Wilde, il garantismo è l’omaggio che la legalità rende all’illegalità, o viceversa.