di Damiano Palano
«Molti di noi […] vengono oggi influenzati assai più di quanto non sospettino, e la nostra esistenza è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto. Sono all’opera su vasta scala forze che si propongono, e spesso con successi sbalorditivi, di convogliare le nostre abitudini inconsce, le nostre preferenze di consumatori, i nostri meccanismi mentali, ricorrendo a metodi presi in prestito dalla psichiatria e dalle scienze sociali. È significativo che tali forze cerchino di agire su di noi a nostra insaputa,
di Damiano Palano

Unknown«Molti di noi […] vengono oggi influenzati assai più di quanto non sospettino, e la nostra esistenza è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto. Sono all’opera su vasta scala forze che si propongono, e spesso con successi sbalorditivi, di convogliare le nostre abitudini inconsce, le nostre preferenze di consumatori, i nostri meccanismi mentali, ricorrendo a metodi presi in prestito dalla psichiatria e dalle scienze sociali. È significativo che tali forze cerchino di agire su di noi a nostra insaputa, sì che i fili che ci fanno muovere sono spesso, in un certo senso, ‘occulti’». Le parole con cui alla fine degli anni Cinquanta Vance Packard apriva il suo celebre I persuasori occulti introducevano il lettore alle nuove tecniche di manipolazione dell’«inconscio» sfruttate dalla pubblicità commerciale, ma iniziava soprattutto a esplorare un campo in cui nei decenni seguenti sarebbero cresciute, oltre a molte ricerche fondamentali, anche numerose varianti, più o meno innovative, della «teoria della cospirazione». Il clima degli anni Cinquanta, l’esplosione della società dei consumi e l’irruzione della televisione nella vita quotidiana dovevano d’altronde rafforzare la sensazione che il cittadino delle democrazie occidentali andasse davvero trasformandosi – come avrebbe scritto dieci anni dopo Herbert Marcuse – in un «uomo a una dimensione», privo di capacità critiche e totalmente succube delle manipolazioni del sistema comunicativo. Naturalmente molte delle ipotesi avanzate allora da Packard sarebbero state in seguito sensibilmente ridimensionate, il potere dei «persuasori occulti» non si sarebbe rivelato così pervasivo come allora si temeva, e l’«uomo della strada» avrebbe conservato almeno qualche tracce di ‘multidimensionalità’ e dunque di autonomia critica. Ma le ricerche sulle tecniche di comunicazione, che allora iniziavano a prendere forma, non hanno cessato di riflettere sulle modalità con cui i media influenzano i cittadini, i loro comportamenti di consumo e naturalmente i loro atteggiamenti politici.

A circa mezzo secolo di distanza dall’uscita dei Persuasori occulti, nel 2007 il ricercatore francese Christian Salmon pubblicava Storytelling. La machine à fabriquer les histoires et à formater le esprit (Paris, La Découverte, 2007; trad. it. Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi, Roma, 2008), un libro che in qualche misura si collocava nello stesso sentiero tracciato da Packard, sebbene si confrontasse con una realtà comunicativa molto diversa da quella degli anni Cinquanta. Se infatti Packard sottolineava soprattutto l’utilizzo per fini di potere delle conoscenze offerte dalla psicoanalisi (o quantomeno dalla ‘vulgata’ americana del pensiero freudiano), Salmon si soffermava invece sul potere delle «storie», e cioè sul potere della ‘narrazione’: un potere ‘scoperto’ dalla macchina comunicativa sul finire del XX secolo, e che secondo lo studioso francese aveva condotto rapidamente alla nascita di un «nuovo ordine narrativo». «Sotto l’immenso cumulo di racconti che le società moderne producono, si fa strada un ‘nuovo ordine narrativo’ (Non) che presiede alla formattazione dei desideri e alla propagazione di emozioni – attraverso la loro resa in forma narrativa, la loro indicizzazione e la loro archiviazione, la loro diffusione e la loro standardizzazione, la loro strumentalizzazione attraverso tutti i sistemi di controllo» (p. 199). Qualche mese dopo, la vittoria di Barack Obama alle elezioni presidenziali avrebbe segnato il trionfo dello storytelling anche in campo politico, e da allora la ‘narrazione’ – in forme spesso caricaturali – sarebbe diventata l’ossessione di ogni candidato e di ogni spin doctor. Ed è proprio per riflettere su quanto è accaduto dopo il 2008 che Salmon torna nuovamente a interrogarsi sulla forza e sulla debolezza di questa tecnica, nel suo La politica nell’era dello storytelling (Fazi, pp. 119, euro 16.00), un libro che merita sicuramente una lettura attenta, soprattutto per evitare di attribuire alla ‘narrazione’ quel potere che Packard riconosceva ai «persuasori occulti».

Se la vittoria di Obama ha indotto osservatori e politici a riconoscere il potere delle storie, Salmon richiama innanzitutto l’attenzione sul complesso di fattori che ha determinato il successo del senatore dell’Illinois nella lunga campagna che lo ha condotto alla Casa Bianca. «Ciò che ha determinato il successo di Obama non è solo la bella storia che ha raccontato agli elettori», scrive infatti Salmon, ma «è una performance complessa, tra rituale e strategia, capace in un solo tempo di connettere il candidato all’elettore, di focalizzare il dibattito, di lottare nel corso di tutta la campagna per il controllo dell’agenda, d’imporre una linea narrativa e, infine, di creare una propria rete di diffusione virale» (p. 35). Più precisamente, il buon esito di una performance narrativa deve sincronizzare quattro tipi di effetti, che Salmon definisce come «il quadrato magico della comunicazione politica»: «l’uso del racconto politico, ormai ben conosciuto sotto il nome di storytelling, ma anche la sua messa in scena; l’effetto subliminale del vocabolario impiegato, ma anche il sistema di immagini e di metafore; la gestione strategica dell’agenda mediatica, che deve obbedire alle leggi della tensione narrativa; l’effetto di contagio provocato dall’uso strategico di Internet e dei social network, la cosiddetta ‘Facebook politics’» (p. 38). Ma se questa precisazione contribuisce a relativizzare gli entusiasmi sul potere della ‘narrazione’, le argomentazioni di Salmon si concentrano soprattutto su un altro aspetto, che è principalmente il processo di erosione della fiducia nel potere cui stiamo assistendo. Un simile processo ha secondo lo scrittore francese due cause principali, che si alimentano a vicenda in un circolo vizioso: «da una parte la relativa impotenza degli Stati di fronte alla crisi del 2008. Dall’altra l’iper presenza mediatica dei governanti e il loro tentativo di controllare l’agenda per ‘romanzare’ l’azione politica. Così come l’inflazione monetaria rovina la credibilità di una valuta, l’inflazione di storie alla lunga erode la credibilità di un narratore politico» (p. 55).

Il «calo tendenziale del tasso di fiducia», come lo definisce efficacemente Salmon, è l’esito di quattro rivoluzioni, strettamente intrecciate, che hanno segnato gli ultimi trent’anni: «la rivoluzione neoliberista che ha trasformato il capitalismo», «la rivoluzione digitale», «la rivoluzione manageriale» e infine «una rivoluzione della soggettività, che si traduce, nella sottocultura di massa, nell’apparizione di un nuovo idealtipo che privilegia i valori di mobilità e flessibilità a quelli di fedeltà e radicamento» (p. 94). Ognuna di queste rivoluzioni ha una propria dimensione specifica, ma complessivamente convergono a determinare una serie di conseguenze, che Salmon riconduce a tre aspetti principali: «1. L’uomo di Stato si presenta ormai meno come una figura investita d’autorità che come qualcosa da consumare; meno come un’istanza produttrice di norme che come un artefatto della sottocultura di massa. 2. L’esercizio del potere, privato dei mezzi di intervento dalle procedure democratiche della deliberazione e della decisione, s’identifica ormai alla riuscita di una performance complessa in cui le antiche arti del racconto e le leggi della retorica si combinano alle nuove tecnologia della comunicazione e dell’informazione, così come alla possibilità, offerta dalle neuroscienze, di agire direttamente sui cervelli. 3. La scena politica muove dai luoghi della deliberazione e della decisione (forum cittadini, incontri di partito, assemblee elettive, ministeri) verso nuovi spazi di legittimazione (Tv, media e Internet). Dalla scena democratica sottoposta al principio della rappresentanza alla scena mediatica retta dalle leggi del simulacro. Il timing dei media si sostituisce al tempo lungo della deliberazione. L’agenda politica cede il posto all’agenda mediatica» (pp. 101-102).

Le trasformazioni della «neopolitica» rendono pressoché inevitabile, da parte del ceto politico, l’adozione di quelle regole che costringono alla ricerca costante di visibilità e all’evocazione di ‘storie’ con cui emozionare, affascinare, entusiasmare il «pubblico». Ma la sempre più marcata «visibilità» si scontra proprio con la sostanziale impotenza di cui soffrono oggi le istituzioni politiche nazionali nel controllare e guidare i processi economico-sociali. Ed è proprio la lacerante contrapposizione fra le narrazioni, che invariabilmente promettono cambiamenti epocali, e la sostanziale impotenza politica dello Stato a determinare l’emergere dei paradossi cruciali della «neopolitica» contemporanea, il primo dei quali è naturalmente l’inflazione dei racconti e dunque la loro sostanziale inefficacia: «la trasposizione in racconto dell’azione politica distrugge alla lunga la credibilità del narratore», e più in generale l’inflazione delle storie «ha un effetto corrosivo sulla credibilità di ogni parola pubblica, in particolare sulla credibilità di coloro che si presume governino proponendo un racconto alla nazione» (p. 110). Ma la realtà della «neopolitica» è paradossale anche perché il narratore ‘neoliberista’ è del tutto flessibile, nel senso che volta spesso le spalle ai propri impegni (erodendo così ulteriormente la propria credibilità), e, soprattutto, perché appare sempre contrassegnato da un inguaribile «volontarismo», destinato ogni volta a mostrarsi del tutto impotente. Ed è in fondo proprio quest’ultimo paradosso, che nasce dal cortocircuito tra un volontarismo esasperato e una sostanziale impotenza politica, che rende il «calo tendenziale del tasso di fiducia» il tratto davvero strutturale – e tutt’altro che congiunturale – di tutti i sistemi politici occidentali all’inizio del nuovo millennio: «Più lo Stato è disarmato, più deve esibire il suo volontarismo. La postura del volontarismo è la forma che prende la volontà politica quando il potere è privato dei mezzi d’azione. Il potere è quella forza che, per non doversi esercitare, deve manifestarsi, per esempio sotto forma di un iperpresidente, maestro nel dettare l’agenda. L’homo politicus è il modello quasi caricaturale di questo individuo neoliberista che fa continuamente appello al volontarismo e al potenziale degli individui (‘volere è potere’) e ricorre incessantemente alla retorica della rottura e del cambiamento per rigettare l’esperienza passata. È un modo di dare il cambio che supera la psicologia dei dirigenti. La postura volontaristica si sostituisce all’esercizio effettivo del potere, la sua credibilità dipende dalla potenza dello Stato, è una scommessa. Se questa potenza non ha più i mezzi per esercitarsi, il volontarismo non produce alcun effetto. Occorre dunque che cresca esponenzialmente d’intensità, che si manifesti con ancora più forza per recuperare credibilità, manifestazione che contribuisce ad accentuare il senso d’impotenza dello Stato. È la spirale della perdita di legittimità. L’uomo di Stato appare come un narratore e un attore poco affidabile, le cui storie e decisioni sono adombrate dal sospetto, non a causa di una mancanza di volontà, ma per la loro stessa costruzione. Il volontarismo neoliberista è nient’altro che questa gara al rilancio di promesse elettorali che dovrebbero trasformare l’impotenza reale in una forza virtuale, continuamente smentita dai fatti e obbligata a riguadagnare credibilità con nuove dichiarazioni volontariste» (pp. 111-112).

È abbastanza scontato che nelle pagine del libro di Salmon, scritto probabilmente pensando alla parabola del grande ‘narratore’ Nicolas Sarkozy, il lettore italiano debba intravedere il più classico de te fabula narratur, perché Matteo Renzi ha fatto dello storytelling la principale strategia per conquistare la leadership all’interno del Partito Democratico e per legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la propria azione di governo. In un suo libro recente, Sofia Ventura ha proposto un’interpretazione della strategia comunicativa (e politica) di Renzi che mette in luce proprio la centralità della ‘narrazione’, e in particolare di una narrazione che raffigura il giovane Presidente del Consiglio, l’eroe del cambiamento, in una lotta quotidiana contro il ‘vecchio’ e contro i ‘gufi’, coadiuvato da un’agguerrita pattuglia di ‘rottamatori’ e ‘fatine’. Ma anche la fiaba di Renzi pare scontrarsi con lo stesso paradosso di cui scrive Salmon, ossia con l’evidente impossibilità di incidere in modo significativo sulla realtà e dunque sull’incapacità di mantenere fede a quelle grandi promesse su cui il racconto si regge. «Sia la struttura della narrazione, sia il suo essere soprattutto un prodotto che prende forma principalmente dentro al contesto mediatico (con una politica pensata soprattutto in funzione della sua comunicabilità)», osserva Ventura al termine dell’analisi, «paiono rendere l’approccio di Matteo Renzi e suoi autosufficiente rispetto agli input provenienti dal mondo esterno. Un racconto, dunque, refrattario alla dimensione empirica e che conduce non a misurarsi con quella dimensione per correggere la teoria e conseguentemente rivedere le azioni alla luce di quella correzione, bensì a forzare la realtà nella teoria, interpretando la prima in modo che si conformi alla seconda» (S. Ventura, Renzi & Co. Il racconto dell’era nuova, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, p. 189). Tanto che, proprio a causa della sua ‘rigidità’, la favola sembra destinata a perdere rapidamente buona parte del proprio potere evocativo. Infatti, «man mano che il tempo passa, il permanere di condizioni problematiche può rendere sempre meno credibile il mondo degli eroi e dei gufi. E anche se, ad un anno dall’insediamento e nonostante gli aggiustamenti del racconto, riappare la tentazione di ricorrere alla tattica del ‘rilancio’ e degli ‘annunci’, la realtà, impietosa, rimane sempre in agguato» (ibi, p. 192).

È ancora presto per formulare bilanci sull’esperienza di un governo che certo ha rappresentato un fattore di rottura nella vicenda della ‘Seconda Repubblica’, ma di cui è ancora difficile valutare la portata effettiva e soprattutto la capacità di sopravvivere alle insidie della «realtà». Forse, quando si discute del ‘decisionismo’ renziano, della legge elettorale, o anche del tentativo di modificare la Costituzione nonostante le opposizioni (esterne ma anche interne al Pd), si dovrebbe tenere presente l’analisi di Salmon. Non tanto per ridimensionare il peso di una serie di iniziative che sicuramente modificano il quadro istituzionale (e procedono speditamente sul sentiero della ‘presidenzializzazione’). Quanto per comprendere come l’enfasi decisionista – che si declina per i sostenitori nella celebrazione della «governabilità», per i detrattori nella variante dell’«uomo solo al comando» – si inscriva, più che in un’analisi realistica delle dinamiche dei sistemi politici contemporanei, all’interno della ‘narrazione’ del cambiamento. D’altronde, se si ripensasse seriamente alla storia del sistema politico italiano dell’ultimo trentennio, si dovrebbe anche serenamente ammettere che tutte le riforme che hanno tentato di garantire la «governabilità» e la capacità decisionale degli esecutivi – ai vari livelli di governo – non hanno nemmeno superficialmente inciso su questioni evidentemente molto più complesse (come per esempio il peso del debito pubblico). Ciò significa, quantomeno, che la realtà è più complicata delle favole degli storyteller. Ma, forse, significa anche che, fra qualche anno, guardando all’avventura politica di Matteo Renzi, ci troveremo a ripensare alle pagine di Salmon e all’inquietante previsione sulla paradossale sparizione dell’homo politicus, travolto dalla propria visibilità, e divorato in una sorta di pasto cannibale dalla stessa logica spettacolare di una politica impotente: «L’homo politicus sparisce. Non di straforo, e neanche in modo lento e impercettibile, come l’estinzione di una specie. Sparisce sotto gli occhi di tutti, al colmo della sua esposizione, in una sovraesposizione mediatica, per una sorta di divoramento. La scena di questo divoramento è la televisione, e le sue apparizioni vi sono attese, spiate come quelle di un fantasma o di un revenant. Di qui la regia scrupolosa che presiede alla loro messinscena. Le leggi della rappresentazione, con i loro rituali e i loro protocolli, lasciano il posto a una logica della ‘riappropriazione’ spettrale, della persistenza, e della sopravvivenza mediatica. […] Desacralizzato, profanato dai media, ridicolizzato dai mercati, sottomesso alla tutela delle istituzioni internazionali e delle agenzie di rating, lo Stato è ormai un buco nero che aspira quello che resta dello sfolgorio del politico. L’homo politicus vi appare non più come il portatore del cambiamento annunciato, ma come uno spettro rischiarato da quelle stesse fiamme che si accingono a divorarlo» (C. Salmon, La politica nell’era dello storytelling, cit., p. 115).

 

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