di Alessandro Campi

untitledSe continua così, con le aule parlamentari trasformate in una bolgia, i partiti che si accusano reciprocamente di attentare alla democrazia e i parlamentari che, raccolti in fazioni, sembrano ormai agire fuori da ogni controllo gerarchico o direttiva politica, anche coloro che sul Patto del Nazareno avevano espresso in passato giudizi negativi o sprezzanti rischiano di rimpiangerlo.

Quell’intesa tanto vituperata tra Renzi e Berlusconi, mai resa ufficiale nei suoi contenuti effettivi, conteneva indubbiamente un che di opaco. Tant’è che ci si è sbizzarriti nel racconto delle clausole segrete che conteneva e che solo i due contraenti principali probabilmente conoscevano. Ma aveva avuto il merito – che oggi possiamo ben apprezzare, avendo altresì capito che quell’accordo forse serviva più al giovane che al vecchio – di garantire una certa stabilità, dal punto di vista politico-parlamentare, ad una legislatura nata non propriamente sotto gli auspici migliori (il fallito tentativo di Bersani di far nascere un governo dopo la sua mezza vittoria alle urne, la forzata rielezione di Napolitano al Colle, la nascita di un esecutivo presidenziale di larghe intese guidato da Letta, il colpo di mano politico contro quest’ultimo di Renzi e la nascita di un nuovo governo), ma alla fine faticosamente avviatasi lungo il cammino delle riforme. Con quelle costituzionali che, insieme alla legge elettorale, sarebbero state realizzate d’intesa col centrodestra.

Con la disdetta unilaterale del patto ad opera del Cavaliere, sentitosi tradito dal suo giovane interlocutore sulla vicenda del Quirinale, ma forse più preoccupato dal rischio di una fatale débâcle alle prossime elezioni amministrative (da qui, sondaggi alla mano come sempre, il suo precipitoso riavvicinamento alle Lega di Salvini) forse ne abbiamo guadagnato in trasparenza e moralità, come sostengono quelli che l’hanno sempre giudicato contro natura e foriero di un pericoloso mercimonio, ma il risultato – a quanto pare – è stato il caos cui stiamo assistendo. Le riforme condivise tra Pd e Forza Italia sembravano una bestemmia da evitare. Quelle stesse riforme approvate a colpi di maggioranza, tenendo i parlamentari chiusi nel palazzo a votare senza sosta, senza alcun dibattito o confronto, saranno giudicate più democratiche e più utili al Paese solo perché non sporcate dal voto berlusconiano?

Ma un dilemma del genere potrebbe non porsi, nel senso che le riforme – oltre a slittare rispetto al calendario stringete che il governo aveva fissato – rischiano seriamente di saltare, ovvero di essere approvate ma al termine di una marcia parlamentare a tappe forzate che, agli occhi dell’opinione pubblica che dovrà poi approvarle per via referendaria, finirebbe per mettere tra i perdenti, oltre le opposizioni che le osteggiano, lo stesso governo che le sostiene. Quando è in ballo la Costituzione, viene facile, in mancanza di un vasto accordo tra le forze politiche, evocare la tirannia della maggioranza e gridare all’autoritarismo: se passa questo messaggio tra i cittadini – magari vedendo la maggioranza votare in un’aula disertata da tutte le minoranze – anche la migliore delle riforme perde inevitabilmente di forza e di legittimità.

D’altro canto la situazione nel Parlamento è quella che è. Il voto per il Quirinale sembrava aver ricompattato le forze politiche, a iniziare dal Partito democratico. Ma le divisioni all’interno di quest’ultimo sono evidentemente strutturali e non componibili a breve. Non è un caso che la sinistra anti-renziana, non appena le opposizioni hanno alzato il tiro, abbia anch’essa chiesto al proprio governo di concedersi più tempo e magari di avviare un dialogo, chiusa la porta a Berlusconi, con il M5S. Un modo subdolo, dietro l’invito a non forzare la mano sulle riforme, per boicottale o rimetterle in discussione. Quanto alle opposizioni, essendo troppe e assai distanti sul merito di ciò che vogliono, possono al massimo fare fronte comune contro la cosiddetta svolta autoritaria di Renzi, come si è visto ieri, ma ciò che rischiano di ottenere, vista l’indisponibilità del governo a rivedere le sue proposte, è solo di imboccare la strada che, se vincerà la strategia della palude, porta alle elezioni anticipate. Strada che potrebbe persino non dispiacere a Renzi, per come rischiano di mettersi le cose, ma piena d’incognite per tutti, specie se si dovesse andare al voto –in entrambi i rami del Parlamento – con la legge elettorale integralmente proporzionale uscita a suo tempo dalla Consulta.

In tutta questa confusione potrebbe a breve profilarsi un divertente, persino paradossale, quadretto politico. Colui che abbiamo mandato al Colle perché facesse l’arbitro e si comportasse con la sua abituale discrezione, potrebbe essere costretto al suo primo intervento pubblico di un certo peso istituzionale proprio sulla questione delle riforme e per stigmatizzare un sistema politico sempre più bloccato dagli opposti veti, dalle divisioni interne ai partiti e da un clima di guerriglia permanente. Mattarella si ritroverebbe così a percorrere la stessa strada solcata per anni da Napolitano. Avremmo così la prova che il cosiddetto “interventismo” del Quirinale non dipende dal carattere o dall’umore del singolo inquilino del Colle, secondo le divagazioni psico-politiche con le quali ci siamo sbizzarriti per settimane, ma dalle condizioni in cui versa il quadro istituzionale. E quelle attuali volgono al pessimo.

Le opposizioni, del resto, hanno già chiamato in causa il Capo dello Stato a difesa delle loro prerogative contro una maggioranza accusata di abusare dei regolamenti e della prassi. Il governo a sua volta si aspetta dal Colle che riconosca il diritto delle forze che lo sostengono a realizzare i loro programmi superando l’ostruzionismo e i ricatti delle minoranze. Come si schiererà, in questa partita che rischia di trascendere in campo e sugli spalti, il custode della Costituzione? Ha ragione chi la vuole cambiare ad ogni costo o chi, da destra e da sinistra, la vede pericolosamente minacciata? E come si comporta l’arbitro quando i giocatori se le danno di santa ragione e si accusano di reciproche scorrettezze? Richiama i capitani delle due squadre all’osservanza del regolamento o fischia la fine anticipata dell’incontro, mandando tutti negli spogliatoi? Di certo non può restare silenzioso troppo a lungo, tantomeno concedere un rigore alla formazione che secondo lui meriterebbe di vincere.

* Editoriale apparsosui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 14 febbraio 2015.

 

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