di Simone Ros

“Gli imperi non muoiono mai, a meno di non svellerne le radici e soffocarli nel sale. Sopravvivono in spirito per generazioni tanto nei discendenti del ceppo egemone quanto nei popoli soggetti al suo dominio. Pronti a rimaterializzarsi alla prima occasione, non appena la pressione geopolitica allenta e ordini battezzati eterni si svelano fragili, tarmati”, afferma acutamente Lucio Caracciolo dalle pagine della sua Limes (4/2010), dedicata al sultano del Terzo Millennio, il premier turco Erdoğan. Se la popolarità dei vip hollywoodiani si “misura” a spanne dal numero di copertine e tabloid conquistati, altrettanto non si può dire dei leader politici, specie quelli internazionali: troppo volatile il consenso elettorale (dall’altar alla polvere, per parafrasare il Manzoni, ad ogni giro di urna o quasi), troppo liquidi i trend dell’infotainment globale, fastidiosamente imprevedibili gli eventi che costellano come grandine un mandato. Questo vale, ad intensità raddoppiata, per le democrazie autentiche; confiniamo invece nel limbo dei “cattivi” quei capi di governo o autocrati che, come killer sbattuti in prima pagina per le loro prodezze da cronaca nera, godono di una “sinistra popolarità” da capitalizzare in casa come surplus di potenza ed influenza.

Il baldanzoso Recep Tayyip Erdoğan, cinquantasettenne leader della tigre anatolica, sembra essere la nuova star della (pop)politica mondiale, in grado di fare incetta di quella golden share della dorata “pioggia di Danae” mediatica che ha benedetto l’ascesa dell’ormai spento e demodé Barack Obama. Se per il vecchio Hegel la lettura dei quotidiani costituiva il laicissimo Vangelo del realista, dobbiamo forse affidare alla “folle banderuola” della carta stampata la determinazione dei futuri assetti geopolitici o degli equilibri di potenza prossimi venturi? Seppur legata ed imbrigliata dalla contingenza e dal tamburo battente delle breaking news, essa può comunque funzionare da catalizzatore di reazioni chimiche-geopolitiche ancora confinate nel sottosuolo della storia.

Da due anni a questa parte, è innegabile e apparentemente inarrestabile la cavalcata a spron battuto del nuovo “sultano del Bosforo”, il “re di Gaza” che da sconosciuto sindaco di Istanbul e primo ministro “ineleggibile” (caduto nella tagliola dell’intransigente laicismo di Stato della Repubblica kemalista per alcune avventate prese di posizione) si è convertito nel leader più amato dell’intero Medio Oriente, nel “non arabo” più acclamato dai figli delle provvidenziali primavere e dai palestinesi della Striscia maledetta. Un leader non immune da ombre di diffidenza e soffocati mal di pancia interni: da sempre, nella moderna Turchia plasmata da Mustafà Kemal per sopravvivere al tragico sfarinamento dell’Impero Ottomano (aggrappata al fatale scoglio anatolico, ultimo scampolo del contenitore multietnico e multireligioso tenuto artificialmente in vita dall’horror vacui delle potenze europee) il “test di laicità” somministrato dai custodi in divisa della Repubblica determina la fine o l’evolversi delle carriere politiche (basta una rapida scorsa agli ultimi sessant’anni di storia: un rosario di colpi di Stato orchestrati dalle stellette o di rapide e indolori defenestrazioni, vedi la cacciata di Erbakan negli anni Novanta). Erdoğan sembra nato per dividere, entusiasmare o gettare nel sospetto, attirare o intimorire: araldo illuminato di un “islam-moderatismo” destinato a fare scuola nel cimitero mediterraneo degli autocrati (affamato di modelli democratici) o astuta volpe islam-reazionaria in grado di prosciugare dall’interno il solido pedigree laicista della Repubblica di Atatürk? Traghettatore di Ankara nel paradisiaco bacino delle democrazie autentiche di stretta osservanza europeista o fautore di una febbrile e sciovinista politica estera già tacciata di “neo-ottomanesimo”? Il determinato califfo glamour a braccia conserte sulla copertina del Time e “il sultano di Istancool” (copyright del caustico Der Spiegel) deve gestire simultaneamente svariati dossier e generose proiezioni strategiche: il sornione architetto del rilancio internazionale della Turchia, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu (professore di Relazioni Internazionali prestato alla politica), ha riversato tutta la sua torrenziale dottrina nella Bibbia geopolitica dell’erdoganismo, il tomo “Profondità strategica” (non ancora tradotto in inglese) già bestseller e oggetto di attenti studi dall’altra parte dell’Egeo (quella greca è l’unica traduzione circolante e non è un caso).

Grazie al suo caleidoscopio di “identità multiple”, il cuore pulsante dell’Impero che fu (scrive Davutoğlu) non può limitarsi a collegare passivamente Est ed Ovest, Asia ed Europa, acquattato staticamente nel caldo e rigido abbraccio della NATO a guardia di un fondamentale “collo di bottiglia”: “chi è statico è perduto” sembra ammonire il professore. La sua teoria è un crescendo di cerchi concentrici che si allargano, inglobando un “ellisse tricontinentale” (Caracciolo) che va dai Balcani alla Mongolia. Eredità ottomana, rinvigorito panturanesimo e comunanza di fede islamica si amalgamano perfettamente in un dirompente “soft power multidimensionale” che solo banalizzando può essere ridotto a nocivo “neo-ottomanismo”. Funziona? Delirio di onnipotenza di una media potenza ebbra di crescita economica o prodigiosa narrazione in grado di infondere poesia alle asettiche politiche estere del prosaico panorama post-guerra fredda? Un fatto è certo e inconfutabile: la formula chiave di Davutoğlu (zero problemi con i vicini) è chiaramente in affanno, incrinata dai colpi di maglio della cangiante realtà mediorientale. Guardiamo la mappa: l’adesione all’arrancante Europa è congelata da tempo, l’asse di ferro con Gerusalemme è andato in frantumi (in seguito all’incidente della Mavi Marmara), Cipro è tuttora un vulnus infettato dalle profonde rivalità e dalle reciproche levate di scudi per lo sfruttamento delle risorse energetiche scoperte nei fondali, la Siria di Assad (posta negli ultimi anni sotto tutela dall’ex nemico turco) affoga nel sangue dei rivoltosi deludendo Ankara e rivoltandosi furiosamente anche contro di essa (vedi gli attacchi alle ambasciate e il sostegno turco agli insorti). La Turchia di Erdoğan è giunta alla prova decisiva: convertire i sogni di grandeur e l’endorsement occidentale in concreta, risolutiva ed efficace influenza; dimostrare che le affascinanti e ottimistiche elucubrazioni della “mente” (Davutoğlu) si accompagnano e rafforzano alla prassi efficiente del braccio, colmando il gap tra aspirazioni e realizzazioni che rischia di interrompere, con un brusco risveglio, quell’empire by invitation islamo-ottoman-altaico tanto immaginifico quanto vago. Prima che il sale degli eventi bruci le radici di un impero di carta.

 

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