di Paul Thibaud*
Sembrerebbe che il confinamento offra uno spazio di tranquillità e tempo libero. Sento in realtà parlare di genitori che «tele-lavorano» e devono far fare ai figli i compiti. Ma che ne è degli altri, di quanti non hanno quegli obblighi e sono semplicemente liberati dai vincoli e dalle seccature inerenti alla vita sociale? Ne conosco che si occupano di lavori manuali, felici di approfittare di uno spazio di tempo supplementare. È un po’ il caso anche di quelli che possono ora «rileggere Proust» (tutti hanno ovviamente già letto Proust, non si può che rileggerlo!) o di quanti, tornando a dei dossier abbandonati, ritrovano la padronanza della loro vita e superano rimpianti che formavano, nella loro esistenza, dei passaggi soffocanti.
Di questo modo produttivo di appropriarsi dell’evento che ci è caduto addosso, io sono proprio incapace: l’età mi impedisce in particolare di viverlo come una tregua a partire da cui è possibile riprendere fiato per tornare poi alla ribalta. Sono troppo vecchio per concedermi il credito di tempo che sarebbe necessario per considerare questa pausa dal punto di vista del mio avvenire. Il mio scetticismo dipende anche dal fatto che le notizie che arrivano dagli altri confinamenti diventano più rare e che i loro contenuti, poveri e ripetitivi, scoraggiano a richiamare.
Ciò di cui non si ha probabilmente voglia di parlare quando ci si sente è la presenza della morte davanti a cui il sonno obbligato ci pone incessantemente. Tutte le sere aspetto le cifre delle ecatombi, quella di qui e quella di altrove. Traccio delle curve, comparo, attendo il picco, faccio dei pronostici… Quanti ci dirigono devono essere, anche loro, affascinati dalla morte poiché, se non apparteniamo al personale medico, ci considerano incapaci di rispettare le «barriere di sicurezza», insomma come dei buoni a nulla obbligati a fare i morti.
Quest’ossessionante compagnia con la grande Falciatrice è un’occasione, se non di guardare in faccia, almeno di considerare più sinceramente la morte, questo spazio ignoto che tuttavia non è vuoto. Uno spazio molto popolato, in realtà, innanzitutto da quanti abbiamo «perso» – perso di vista – che sono stati nostri amici, o nostri genitori, e la cui vita si è intrecciata alla nostra, da quanti ci mancano e con cui la relazione non può essere considerata terminata, perché è stata in parte mancata. Se si pensa a quanti sono già sull’altra riva, chi può pretendere che con loro la relazione è stata un successo completo, un compimento impeccabile? Quelle relazioni non possono essere saldate, perché sono state in parte mancate, da un lato come dall’altro.
Nella cornice della famiglia e molto al di là, la morte, zona di contatto, ci mostra legati alle umanità anteriori in una forma sensibile che ci implica senza che sia possibile padroneggiarla. Quell’apertura sull’incompletezza, sull’ignoto, conduce a considerare la vita in cui siamo come una prova, come un abbozzo il cui compimento non ci appartiene. Ritroviamo così Péguy, quando pensava che «le patrie carnali sono il corpo e la prova della casa di Dio». Vale per gli individui come per i popoli: la vita è una prova e vale come tale.
*Paul Thibaud (in alto, nella foto), filosofo francese, nato nel 1933, ha diretto dal 1977 al 1989 la celebre rivista Esprit [Traduzione di G. De Ligio]
Lascia un commento