di Andrea Beccaro
Il fatto che una guerra civile possa “contagiare” in qualche modo i paesi vicini, non è certo una novità del mondo globalizzato di oggi soprattutto perché è la forma stessa dei conflitti contemporanei (combattuti da attori non statuali, irregolari, appoggiati da gruppi affini o fratelli per ragioni etniche o religiose, abili nel sfruttare la rete per diffondere i loro messaggi) a spingere verso una crescente interconnessione tra aree di conflitto. Resta però il fatto che il conflitto siriano rischia di far esplodere (o forse sarebbe meglio dire implodere) l’intera regione e di allargarsi come la recente cattura di 21 peacekeeper ONU da parte dei ribelli potrebbe far presagire.
Un primo aspetto da prendere in considerazione riguarda i curdi. Non è segreta la loro volontà di creare una zona autonoma che esiste già nel nord dell’Iraq dove, prima con la guerra nel 1991 e l’istituzione della no-fly-zone e poi con la guerra del 2003, il Kurdistan si è progressivamente allontanato dal controllo di Baghdad con cui rimangono tesi i rapporti relativi ai contratti, e quindi agli introiti, petroliferi. Il problema curdo riguarda anche la Turchia con cui la Siria in questi anni di conflitto civile ha già avuto più di una schermaglia militare e diplomatica. Un altro aspetto regionale riguarda l’appoggio, più o meno aperto, che l’Iran ha dato ad Assad in particolare attraverso voli che potevano usufruire dello spazio aereo iracheno per raggiungere senza intoppi la Siria e che in passato sono stati stigmatizzati dagli Stati Uniti.
Non vanno poi dimenticate altre implicazioni come quelle relative a un ipotetico scenario di futuro conflitto tra Israele e Libano, storicamente legato alla Siria oppure all’intervento delle monarchie del Golfo in difesa dei loro interessi. Ma ciò che in questi giorni appare chiaro è il ruolo chiave dell’Iraq, non solo per i riferimenti prima ricordati riguardo ai voli iraniani e ai curdi. Infatti, proprio nei giorni scorsi si è verificato un pericoloso sconfinamento della guerra siriana in Iraq. Lunedì un gruppo di circa 40 soldati siriani è stato ucciso da assalitori non meglio identificati all’interno della provincia irachena di Al-Anbar nei pressi del confine. Nell’attacco -molto ben congegnato e in cui sono stati utilizzati IED, armi automatiche e RPG ovvero l’armamentario classico dei guerriglieri moderni- sono anche morti alcuni militari iracheni che stavano scortando il convoglio verso il confine. La presenza di militari siriani sul territorio iracheno si spiega con il fatto che durante il weekend erano sfuggiti a un massiccio attacco dei ribelli siriani rifugiandosi appunto oltre confine nella provincia irachena di Nineveh. La presenza dei militari iracheni di scorta sottolinea certo una volontà irachena di tenersi in disparte rispetto al conflitto siriano, ma questo incidente si inserisce ormai in un contesto molto deteriorato.
Per prima cosa questo non è il primo atto violento che travalica il confine. Già in estate c’erano stati scontri tra ribelli siriani, che avevano preso il controllo di alcuni valichi, e forze irachene. A seguito del fuoco proveniente dalla Siria il 7 settembre era morta una ragazza irachena, mentre il 7 marzo 2013 è stato chiuso il valico iracheno di Yaarubiyeh, nella provincia di Niniveh, e sono stati inviati rinforzi dopo che un militare iracheno era stato ucciso e un altro ferito nel weekend a seguito di salve provenienti dalla Siria. L’azione dell’altro giorno però ha alzato il livello sia perché il numero e la tipologia delle vittime (militari siriani) è ben diversa sia perché è avvenuto all’interno dell’Iraq ed è stato condotto con evidenti capacità operative il che potrebbe anche far pensare che a compierlo siano stati sunniti iracheni o che questi abbiano almeno offerto appoggio logistico ai ribelli siriani.
Qui risiede il pericolo maggiore di allargamento del conflitto siriano. Infatti, in Siria si sta in parte riproponendo la spaccatura già verificatasi in Iraq tra sunniti e sciiti e l’appoggio dei sunniti iracheni ai loro confratelli oltre confine è un dato oggettivo anche perché i legami sia famigliari tra alcuni sceicchi sia economici tra la provincia di Anbar e le aree siriane sono radicati. Tutto ciò si deve inserire nella complessa realtà irachena che, come già altre volte si è messo in evidenza in queste pagine, è oggi sull’orlo di una nuova guerra civile. Proprio la provincia di Anbar, sunnita, è teatro ormai da prima di Natale di proteste, anche feroci, contro il governo di Maliki colpevole non solo di marginalizzare i sunniti e di appoggiare Assad lasciando come ricordato campo aperto ai rifornimenti iraniani, ma anche di portare il paese verso una dittatura e di guidare un governo in cui la corruzione la fa da padrona (il sito transparency.org pone l’Iraq al 169° posto nel suo indice della corruzione ovvero tra gli ultimissimi posti al pari di Afghanistan, Corea del Nord o Somalia). Queste proteste hanno coinvolto ampie fette della popolazione sunnita e catalizzato le critiche verso Maliki che però, a parte alcune parole di circostanza e la scarcerazione di qualche decina di sunniti accusati di atti di terrorismo o di appoggiare la guerriglia contro il governo, non ha cambiato né il suo atteggiamento nei confronti dei sunniti né la sua politica.
Tutto ciò porta a inasprire il conflitto settario che dopo i picchi di violenza tra il 2006 e il 2007 sembrava parzialmente riassorbito (anche se mai si è avuta la sensazione di una sua conclusione) e, riagganciandoci alla questione siriana, conduce a prospettive pessimistiche. Un maggiore coinvolgimento dei sunniti iracheni in appoggio ai loro fratelli di oltre confine non è da escludere, anche solo dal punto di vista logistico, e la storia ci insegna quanto un “santuario” sicuro esterno al teatro di un’insorgenza sia importante. Inoltre questo coinvolgimento potrebbe spingere a un maggiore intervento del governo iracheno ad Anbar e quindi contro i sunniti iracheni acutizzando la già profonda frattura interna tra sunniti e sciiti. Un ulteriore elemento della guerra civile in Siria che può influire sulla situazione irachena è quello dei rifugiati che proprio in questi giorni hanno raggiunto complessivamente quota 1 milione e che in parte sono confluiti in Iraq. Nel contesto strategico contemporaneo la presenza di rifugiati rischia di essere un elemento di instabilità specie all’interno di una situazione già non particolarmente stabile.
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