di Antonio Campati

In una recente intervista «virtuale» (domande e risposte sono state fatte via mail), Gianroberto Casaleggio ha ribadito i contorni della sua visione di «democrazia diretta», la quale non coincide solamente con la possibilità di frequenti consultazioni popolari ma si presenta come una forma politica del tutto inedita perché riserva una originale centralità al cittadino nella società, nella quale le «organizzazioni politiche e sociali attuali saranno destrutturate» mentre alcune scompariranno del tutto. Pertanto, Casaleggio profetizza che «la democrazia rappresentativa, per delega, perderà di significato», anche se la «democrazia diretta» non sostituirà il Parlamento, bensì comporterà un mutamento della sua natura: infatti gli eletti «devono comportarsi da portavoce, il loro compito è sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati» (La democrazia va rifondata, intervista a Gianroberto Casaleggio di Serena Danna, «LaLettura – Corriere della Sera», 23 giugno 2013).

Provocatoriamente, si potrebbe far presente che dopo il successo elettorale del Movimento 5 Stelle nelle ultime elezioni politiche e quindi con la conquista di un consistente numero di seggi parlamentari, l’idea di poter agire come semplici «portavoce» si è scontrata subito contro gli scogli della politica «pura». È certamente possibile essere un «portavoce» nelle assemblee elettive ma al costo di riportare semplicemente decisioni prese da altri (il leader?) e snaturare, così, il rapporto di rappresentanza. Ma, in fin dei conti, è proprio ciò che si prefiggono gli esponenti del M5S quando spingono per rivedere, come illustra ancora Casaleggio, l’intera «architettura costituzionale» dove, fra l’altro, deve essere previsto il «vincolo di mandato», oggi vietato costituzionalmente. E così, fra le proposte avanzate, non sorprende che ci sia anche la possibilità per i cittadini di un collegio di poter «sfiduciare e quindi far dimettere il parlamentare che si sottrae ai suoi obblighi in ogni momento attraverso referendum locali» (ibidem).

Sostenere la possibilità di revocare gli eletti a cariche pubbliche prima della scadenza elettorale del mandato e attraverso il ricorso a metodi di democrazia diretta, vuol dire adottare l’istituto giuspolitico del Recall. Come spiega Davide G. Bianchi in Élite in crisi. La revoca degli eletti in democrazia (Rubbettino, 2012, pp. 95, € 10,00), il Recall è nato in California all’inizio del secolo scorso ed è stato utilizzato per la prima volta nella città di Los Angeles nel 1903. Nel corso dei decenni ha trovato spazio in diverse costituzioni degli Stati membri americani, ma l’attenzione su di esso da parte di tutto il mondo si è avuta dopo la seconda revoca di un governatore statale verificatasi fino ad oggi (la prima è del 1921 nel North Dakota), quella del governatore democratico Gray David avvenuta in California nel 2003 e che ha portato alla contestuale elezione di Arnold Schwarzenegger.

L’attenzione su questo particolare strumento di controllo politico non deve far pensare, sostiene Bianchi, che possa essere esportato altrove (casomai anche in Italia) perché il Recall è una specificità anglosassone che, nel rapporto fra l’elettore e l’eletto, consente la revoca senza presupporre l’imperatività del mandato. E proprio su quest’ultimo aspetto che, sempre secondo Bianchi, occorre concentrare l’attenzione perché la cultura anglosassone, nonostante non abbia inserito nelle costituzioni il mandato imperativo (come, invece, è avvenuto in molti paesi europei), rimane saldamente ancorata alla teoria liberaldemocratica che, in verità, ha contribuito a fondare in maniera determinante (p. 15). In sostanza, l’istituto del Recall si inserisce pienamente nel contesto della democrazia rappresentativa e infatti non è escluso che da un lato possa renderla più «democratica», ma dall’altro potrebbe anche renderla «meno partecipativa» perché eccessivamente legata all’iniziativa di soggetti estranei ai processi democratici che, per esempio, disponendo di ingenti risorse economiche, riuscirebbero a organizzare campagne comunicative per screditare un determinato soggetto pubblico e chiederne quindi la rimozione dall’incarico (p. 74).

Le provocatorie citazioni iniziali non possono essere discusse accostandole al lavoro di approfondimento di Bianchi, tuttavia entrambi gli approcci evidenziano come la possibilità di controllare gli eletti stia diventando, per alcuni versi, la nuova ossessione dei nostri tempi (ciò non toglie, ovviamente, che l’esigenza di trasparenza degli atti e delle azioni sia indispensabile per un buon funzionamento della democrazia). Ad ogni modo, l’istituto del Recall è senza dubbio uno degli strumenti più efficaci per monitorare costantemente i responsabili politici, anzi, potrebbe accentuare maggiormente le sue potenzialità se venisse utilizzato attraverso internet e quindi senza dover raccogliere un numero minimo di firme necessarie per lo svolgimento del referendum.

Una prospettiva di questo tipo mostra elementi attraenti ma, portati alle estreme conseguenze, i presupposti della democrazia digitale potrebbero riservare amare conseguenze per la stessa vita democratica. Un buon esercizio di ciò che un’eccessiva attenzione per le procedure dirette di partecipazione politica potrebbe comportare lo si trova nella storia di Leonardo e Camilla, i protagonisti del «pamphlet di intervento politico» scritto da Vincenzo Latronico a ridosso delle ultime elezioni politiche (La mentalità dell’alveare, Bompiani 2013, pp. 201, € 12,50). Nel libro, una modalità di intervento simile al Recall altera il rapporto di rappresentanza politica in maniera non indifferente, in un contesto nel quale i cittadini-eletti sono scrutati e giudicati costantemente attraverso consultazioni on line. Una proposta dal basso suggerita inizialmente sulla piattaforma digitale della Rete dei Volenterosi, l’Alveare, si trasforma in un’arma a doppio taglio che, complici le procedure informatiche, crea esiti inaspettati. Ma è nel mezzo del racconto che, fra le righe, si percepisce una delle possibili difficoltà nel far convivere la partecipazione diretta via web con le inderogabili regolarità della vita politica: Filippo, già cittadino-eletto, attivista e personaggio chiave nel racconto, confessa a Camilla che: «se leggi su Internet, sull’Alveare, ti rendi conto che un sacco di gente non ha idea di come vadano davvero le cose in politica. Pensano che sia come un forum, pensano che tutti siano come noi – sono idealisti, semplificano» (p. 120).

Anche per l’intreccio con vicende personali, la prospettiva politica che emerge dal libro non rassicura affatto sulla possibilità di un miglioramento del rapporto di rappresentanza attraverso la democrazia digitale. Infatti svela al lettore che, in fondo, neppure con quest’ultima potrebbero aprirsi le porte del paradiso democratico. L’intento è ancora più interessante, infine, poiché tende a far luce su un’illusione sempre più diffusa: quella in base alla quale, esasperando l’utilizzo di alcuni procedimenti partecipativi (più o meno diretti), si riescono a scegliere, sempre e comunque, i «migliori» rappresentanti.

 

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