di Alessandro Campi
Si dice che l’attuale pandemia da coronavirus avrà, tra le sue conseguenze più o meno dirette e durature, la fine della globalizzazione e della connessa ideologia globalista. Avremo perciò nel futuro un mondo meno aperto e unitario, più ristretto e spezzettato, con più confini e limitazioni.
Tutto ciò servirà se non a proteggerci – visto che proprio quest’emergenza sanitaria sta dimostrando quanto poco servano le frontiere a frenare i contagi – a darci l’illusione di una maggiore sicurezza.
Già oggi, del resto, il confinamento domestico obbligatorio ci starebbe abituando ad una restrizione delle relazioni sociali e degli spazi d’azione destinata a incidere, secondo alcuni psicologi sociali, sui nostri comportamenti a venire. Passato il pericolo resterà infatti la “grande paura” e quest’ultima potrebbe spingerci a preferire sempre più i rapporti di vicinato, la prossimità, la frequentazione di cerchie ristrette e dunque la stanzialità.
Persino il nomadismo turistico, che sembrava una delle nostre conquiste più belle, potrebbe trasformarsi in un’insidia da evitare. Si viaggerà, ovviamente, ma soprattutto per le necessità del lavoro, sempre meno per piacere. Ci aspetta insomma un ritorno – mentale, fisico – al localismo, riscoperto sempre più alla stregua di una dimensione virtuosa in ogni ambito, compresa quella politica.
Ma dovendo azzardare una previsione, alla luce soprattutto del modo non sempre lineare con cui l’Italia sta affrontando la crisi e delle priorità tecniche e politiche che quest’ultima ha fatto repentinamente emergere, è più facile che a entrare in crisi, una volta scomparso il virus con le sue terribili conseguenze, sia proprio l’esasperata e miope “cultura” del localismo – una vera e propria deriva – che ha segnato gli ultimi tre decenni della nostra vita pubblica e che alla prova dei fatti ha dimostrato di essere non meno dannosa della retorica, spesso acritica e entusiastica, sulla globalizzazione.
Laddove per localismo deve intendersi non la romantica tendenza a riscoprire le radici autentiche di una comunità, o il bisogno di una politica radicata nella dimensione territoriale e come tale capace di rispondere meglio ai bisogni concreti dei cittadini, ma quello che correttamente si legge nei dizionari (citiamo dal Treccani): «Tendenza a impostare e risolvere i problemi di natura politica o sociale da un punto di vista angustamente locale, senza tenere conto della situazione generale».
Il localismo come sinonimo di particolarismo, come una forma di autonomismo politico-territoriale che spesso si traduce nel mito di un’impossibile autosufficienza. Parliamo dunque di una visione politica miope e disfunzionale, di un modo d’intendere la vita di una collettività segnato non tanto dall’egoismo che nasce dal benessere e dalla ricchezza (che come l’esperienza anche individuale insegna sono sempre fattori relativi e reversibili), ma dalla presunzione – anche quando si è parte integrante di un più vasto aggregato politico – di poter fare da soli e di non avere particolari obblighi di solidarietà col prossimo.
È esattamente la fotografia dell’Italia emersa drammaticamente in queste settimane, segnate proprio dai continui contrasti tra il governo centrale e quelli regionali (a cominciare dagli strappi della Lombardia, che si è distinta per la fallimentare gestione sanitaria all’inizio dell’emergenza), che se da un lato hanno prodotto grande disorientamento nei cittadini, dall’altro hanno contribuito a complicare e ritardare le decisioni su come e con quali strumenti affrontare l’emergenza sanitaria in corso. Ma segnate altresì dalla consapevolezza, maturata proprio grazie a questa fase di estremo pericolo collettivo, che tre decenni trascorsi a parlare di secessione, indipendentismo, federalismo, devolution, livelli di competenze, attribuzioni di potere, politiche territoriali, autonomia differenziata, ecc. sono improvvisamente evaporati allorché da Torino a Catanzaro, dalla Lombardia alla Sicilia, tutti gli italiani (giustamente preoccupati per la loro salute e per il loro futuro economico) hanno cominciato a chiedere la stessa cosa: un intervento massiccio – in termini di uomini, mezzi e soldi – dello Stato e dunque dell’autorità politica centrale. Un coro al quale ovviamente si sono associati immediatamente Sindaci e Presidenti di Regione.
Una simile richiesta potrebbe sembrare un rigurgito di statalismo deteriore, dettato comprensibilmente dalla paura e dalla necessità, come già è accaduto in altre circostanze drammatiche (terremoti, cataclismi naturali, crisi economiche prolungate). Ma stavolta – propria a causa dell’eccezionalità di quel che sta accadendo e degli effetti strutturali che quest’emergenza è destinata a produrre – l’impressione è che questa sorta di “appello allo Stato” vada al di là della contingenza e segni piuttosto l’inizio di un nuovo ciclo politico-istituzionale.
Ciclo che dovrà essere fatalmente caratterizzato da una nuova e più funzionale distribuzione dei poteri e delle competenze tra Stato e Regioni, dunque da un’architettura istituzionale più funzionale di quella che, nel nome di un malinteso autonomismo, abbiamo finito per costruire. Non si tratta solo, dopo quanto sta accadendo, della necessità di avere una sanità che sia autenticamente “pubblica” e soprattutto “nazionale”, come tale sottratta, come oggi accade, alla competenza esclusiva delle Regioni. La questione è più vasta e riguarda il ruolo di garante del bene collettivo, di struttura di indirizzo e controllo, di autorità politica suprema che sulle materie strategiche per la vita di una collettività lo Stato deve mantenere. Sempre, non solo nelle situazioni straordinarie o estreme.
La crisi in corso, come è noto, ha reso necessaria l’adozione, in tempi rapidi, di provvedimenti eccezionali sull’intero territorio nazionale: chiusura obbligatoria delle scuole e delle attività produttive; restrizioni alla libertà di movimento; misure urgenti in materia fiscale, finanziaria e creditizia; varo di ammortizzatori sociali; norme in deroga sui mutui; concessione di sussidi straordinari; deroghe ai rapporti di lavoro per l’assunzione di personale sanitario. Sarebbe stato possibile agire su questi diversi terreni senza uno Stato in grado, non solo di prendere decisioni politico-amministrative veloci e sperabilmente efficaci e coerenti, ma anche di offrire garanzie e rassicurazioni non solo ai propri cittadini, ma anche ai propri interlocutori e partner internazionali?
Viene dunque da chiedersi in quale situazione di caos oggi si troverebbero Regioni quali la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna (quelle che più di altre, sino a pochi mesi fa, hanno spinto sul pedale del “regionalismo differenziato” e che oggi, per un tragico destino, più di altre si trovano investite dall’emergenza sanitaria) se avessero per davvero nelle loro mani, in tutto o in parte, le competenze di natura concorrente previste dall’art. 117 comma 3 della Costituzione in materia di istruzione, politica industriale, fiscalità, governo del territorio, commercio con l’estero, professioni, protezione civile, ricerca scientifica e tecnologica, tutela della salute, porti e aeroporti, ecc.
Non si tratta beninteso di mettere in discussione il pluralismo territoriale e istituzionale che storicamente caratterizza l’Italia in quanto Stato unitario. Si tratta piuttosto di ripensare l’autonomismo sul piano politico-istituzionale, ma ancora prima sul piano culturale e dell’ethos collettivo. Aggrapparsi al tricolore o all’inno nazionale sotto la spinta della paura, invocare la mano dello Stato quando i poteri locali sembrano non avere i mezzi sufficienti per agire, immaginare che i Presidenti di Regioni rappresentino un potere alternativo o concorrenziale con quello centrale, come è appunto accaduto in queste settimane, è già il segno di qualcosa che non funziona nel modo di essere dell’Italia e degli italiani.
Parlare oggi di riforme istituzionali – di uno Stato da alleggerire burocraticamente e da rilegittimare nel suo ruolo di indirizzo, di autonomie locali da raccordare funzionalmente con quest’ultimo, di classi dirigenti (locali e nazionali) capaci di opere in sinergia senza personalismi – sembra quasi una bestemmia, considerate le priorità esistenziali che abbiamo in testa. Ma è una delle tante sfide che, quando tutto sarà finito, dovremo comunque affrontare, anche per dimostrare che qualcosa abbiamo appreso dalla brutta esperienza che stiamo vivendo.
*Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 6 aprile 2020
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