di Federico Donelli
Dopo aver trascorso una decina di giorni nel totale fermento politico, la situazione interna alla Turchia è progressivamente tornata alla normalità. Sciamato l’eco delle proteste e delle critiche internazionali nei confronti di un governo colpevole di aver represso le manifestazioni di dissenso con un eccessivo uso della forza, rimane la consapevolezza che le questioni emerse durante i giorni di piazza Taksim dovranno prima o poi essere affrontate dall’esecutivo guidato dal Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan. Nella settimana più lunga da quando è diventato premier nel 2002, a mutare è stata la stessa retorica politica del carismatico leader turco, il quale ha ripreso e riadattato temi tradizionalmente cari ai suoi principali avversari politici, tra cui le sferzanti accuse di complotti orditi dalle potenze occidentali, la denuncia dei molti effetti collaterali della globalizzazione e una serie di censurabili attacchi xenofobi.
La fluidità del contesto mediorientale ha però fatto passare rapidamente in secondo piano la situazione turca dove, per riassumere, è probabile che lo scontro politico si sposti nelle prossime settimane all’interno dell’Assemblea Generale intorno alla delicatissima riforma costituzionale da cui dipendono non solo le future scelte del partito di maggioranza, ma il destino stesso del Paese che potrebbe, in caso di una sua approvazione, assumere una fisionomia del tutto diversa rispetto a quella attuale.
Il colpo di Stato militare in Egitto ha richiamato le attenzioni dell’intera comunità internazionale, preoccupata dal rischio che la polarizzazione egiziana – laici vs islamisti – possa sfociare in una nuova e inarrestabile escalation di violenza innescando lo scoppio di una vera e propria guerra civile di proporzioni maggiori rispetto a quella già drammatica in corso in Siria. La Turchia che in questi due anni si è dimostrata aperta e solidale con i Fratelli Musulmani, non tanto per affinità politiche e ideologiche al movimento quanto, piuttosto, perché a seguito delle rivolte la scelta del governo Erdoğan è stata quella di schierarsi dalla parte delle piazze. Per la Turchia i Fratelli Musulmani, in quanto espressione della volontà popolare egiziana erano e sono i legittimi rappresentanti della società, motivo per cui la deposizione del Presidente Morsi è stata condannata dalle autorità turche che hanno inoltre criticato la passività di un Occidente colpevole di tacito assenso. La Turchia, invece, ha reagito in maniera ferma al colpo di Stato, condannandolo apertamente ed esprimendo l’opinione che l’arresto del processo democratico imposto dall’azione dei militari rappresenti una sconfitta non solo per il mondo musulmano ma soprattutto per quello occidentale reo – una volta di più – di aver voltato lo sguardo altrove.
In questi due anni la Turchia è stato uno dei Paesi più coinvolti nel processo di transizione democratica egiziano, lo dimostrano le visite compiute da membri del governo, su tutte quella dello stesso Erdoğan accolto come una “rock star” tra le strade del Cairo nel settembre del 2011. La caduta dei Fratelli Musulmani comporta quindi un’ennesima revisione della strategia geopolitica turca, che contava di costituire con l’Egitto un cordone di Paesi sunniti, ad iniziare dal contesto siriano, in grado di contrastare la crescente influenza dell’Iran sciita, amico nemico con il quale vige da anni un precario equilibrio.
Il golpe egiziano ha portato un ulteriore e non irrilevante dato politico; ossia la dimostrazione, un’altra dopo l’inadeguatezza palesata durante i primi mesi della crisi siriana, di come la Turchia non sia affatto in grado di gestire e indirizzare da sola i futuri equilibri regionali. L’influenza che molti analisti attribuivano e tuttora attribuiscono alla Turchia nei confronti dei governi mediorientali, alla prova dei fatti si sta rilevando nulla o quanto meno insufficiente per poter costituire un effettivo potere di persuasione. La presa di coscienza di questi limiti, rappresenta un duro colpo per il governo di Ankara, rischiando di minare la credibilità nazionale e internazionale di Erdoğan.
La scelta più adatta per Erdoğan in questo momento delicato sarebbe quella di rivolgere lo sguardo alle questioni domestiche, raggiungendo un compromesso con le componenti “progressiste” della società civile che rivendicano maggiori diritti e voce in capitolo su temi nuovi per il contesto politico turco (ambiente, energia, diritti civili, omosessualità) facendo leva su quello che forse rimane il punto di forza dell’AKP ossia l’andamento dell’economia nazionale e il conseguente aumento del benessere della popolazione. Allo stesso tempo l’esecutivo turco dovrebbe portare avanti i negoziati con la componente curda non più e non solo per giungere ad uno storico cessate il fuoco con la guerriglia del PKK ma, soprattutto, per lavorare congiuntamente ad una nuova nozione di cittadinanza che riconosca le peculiarità delle molte minoranze etniche, linguistiche e religiose presenti nel Paese. Defilarsi momentaneamente dal ruolo di primo attore nelle questioni regionali servirebbe a riportare tranquillità interna e darebbe alla dirigenza AKP il tempo per rielaborare l’impostazione delle proprie politiche verso i Paesi attraversati dalle ondate democratiche e minacciati dall’aumento delle violenze di stampo politico confessionale. Una soluzione, questa, che però si scontra con le ambizioni di Erdoğan e la sua voglia di veder crescere la Turchia nel contesto internazionale; una voglia vissuta come responsabilità, derivante dalla centralità storica del Paese. Proprio la dilagante grandeur turca ha portato in questi giorni il Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, demiurgo della politica estera AKP nonché politico tra i più attivi sui social networks, a ‘twittare’ che “la Turchia è il primo Paese ad avere la possibilità di plasmare il corso della storia futura, storia che, da questo momento, sarà portata unicamente alla nostra volontà”. Ennesima dimostrazione delle contraddizioni di un Paese che critica la globalizzazione ma gode dei molti vantaggi materiali che essa comporta e che si erge a garante di democrazia e libertà per il ‘nuovo’ Medio Oriente ma, scomodando la ragion di Stato, reprime duramente manifestazioni interne di pubblico dissenso. Tutti sintomi della ricerca di un proprio posto e di un equilibrio tra le molte identità presenti nel Paese che, come in un romanzo di Pamuk, difficilmente riescono ad incontrarsi e conciliarsi. Rimane dunque difficile pronosticare le prossime scelte del governo sulle delicate questioni regionali (Egitto, Siria), la certezza è che rispetto alla primavera del 2011 oggi l’onda lunga dei fermenti negli Stati vicini può a medio termine rappresentare una seria minaccia alle ambizioni dell’esecutivo AKP ed alla stessa stabilità interna al Paese.
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