di Michele De Vitis
La notizia del declassamento firmato Standard & Poor’s aggiunge un altro piccolo tassello a questo lento e progressivo disfacimento in termini sia economici che di credibilità. L’Italia – va ammesso con tono sommesso e certamente privo di tentazioni consolatorie e assolutorie – non è però la sola ad aver subìto il taglio del rating: a fine luglio è accaduto alla Grecia, lo scorso marzo al Portogallo e ad aprile alla Spagna.
Al netto delle lampanti responsabilità politiche, sorge dunque il dubbio che ci sia un fattore comune tra questi Paesi in grado di incidere pesantemente sulle loro performance economiche: si pensi alla cultura mediterranea, cristallizzatasi nel tempo intorno a strutture politiche e socio-economiche a loro volta consolidatesi dopo processi, tanto tardivi quanto incompiuti, di riallineamento, se non di inseguimento, col resto dell’Europa Occidentale.
In fondo, Irlanda a parte, quali Paesi vengono definiti come Pigs dagli specialisti del settore? Sono proprio quegli Stati in cui libertà d’iniziativa e conseguente industrializzazione capitalista hanno faticato ad attecchire, sono quei sistemi politici polarizzati e conflittuali in cui la transizione verso la democrazia liberale si è avviata solo negli anni Settanta, eccezion fatta per l’Italia che pur essendo approdata prima a un regime democratico ha comunque vissuto in una democrazia quantomeno bloccata.
Esiste dunque un gap culturale che rende più arretrate le economie dell’Europa meridionale? Guardiamo all’alto debito pubblico che accomuna Grecia, Italia, Portogallo e Spagna e rappresenta la principale zavorra di ogni loro azione politica. Un’eredità non invidiabile, né ineludibile in presenza di uno Stato dal ruolo forte e di una vasta politicizzazione della società, modellata a uso e consumo dei partiti.
Queste due forze sostanzialmente conservatrici si traducono in ricorrenti fenomeni clientelari a spese della collettività, alimentati anche dalla debolezza di quell’autorità razionale-legale che, così come definita da Weber, incentiva il rispetto di regole e principi condivisi. È vero, l’adozione di standard comuni in tutti gli Stati membri dell’UE, incoraggiata sempre con più forza dalle istituzioni europee negli ultimi decenni, ha costretto i Paesi mediterranei a un adeguamento e a un ricompattamento con politiche più accorte e meno allegre, ma tutto questo appare, anche in virtù dello scarso vigore del progetto europeo, un’operazione poco convinta, distratta e superficiale.
È quindi evidente il fallimento della cultura mediterranea nell’affrontare autoriforme strutturali, innovatrici quando non quasi rivoluzionarie, attraverso ad esempio maggiori aperture al mercato e più limiti alla spesa. Si tratta di un’impreparazione sempre più grave quanto ostinata, riconducibile principalmente al costante declino delle élite economiche, sociali e politiche che, come elaborato da Deutsch nel modello a cascata, costituiscono i principali attori di influenza dell’opinione pubblica.
Ataviche indolenze e visioni ciniche e ristrette, retaggio anche di un rapporto irresponsabile tra rappresentanti e rappresentati, sembrano soffocare ogni possibilità di crescita, comunque possibile e presente nel dna mediterraneo, e contribuiscono a promuovere l’auto-protezione e la conservazione.
Un quadro truce e pessimista? Niente affatto. Pensiamo all’Italia, nonostante tutto ancora oggi l’unico Paese dell’Europa meridionale ad occupare un posto nel G20. Chiamiamola una speranza, seppur flebile. Come ogni sguardo al passato, impressionato in una fotografia ingiallita.