di Damiano Palano
Non si può certo dire che i primi anni di vita del Partito Democratico siano stati segnati da grandi successi politici. Può anzi essere considerato un risultato quasi sorprendente il fatto stesso che questo partito – nato dal fallimento del governo guidato da Romano Prodi (e, peraltro, elemento di accelerazione della disgregazione dell’Unione vincitrice delle elezioni del 2006) – sia riuscito a sopravvivere per cinque anni, sopportando il peso di sconfitte, critiche, lacerazioni. Certo, a tenere insieme il Pd è stata soprattutto la prospettiva dell’imminente esaurimento della parabola politica di Silvio Berlusconi. Ma questa prospettiva non ha potuto rendere effettivamente omogeneo e coeso un partito che – come tutti i partiti nati dalla fusione di formazioni preesistenti – conserva profonde linee di divisione soprattutto all’interno del proprio gruppo dirigente. E non è certo casuale che, proprio nel momento in cui si palesano le condizioni della sospirata vittoria elettorale, i motivi di divaricazione tornino ad affiorare, ponendo dinanzi a strade molto diverse.
Nel discorso in cui ha annunciato la “salita” sul palcoscenico politico, Mario Monti ha rilevato come, all’interno del fronte di sinistra, convivano due anime ben distinte: la prima votata a un maturo “riformismo”, la seconda invece sostanzialmente “conservatrice” e attestata sulla difesa di interessi corporativi e di ideologie condannate dalla storia. A ben vedere, non si tratta certo di una lettura particolarmente originale. Molti osservatori hanno infatti rinvenuto la principale contraddizione del Pd nelle sue stesse matrici culturali: secondo questa lettura, benché il Pd sia nato dalla fusione di diverse formazioni, l’impronta culturale prevalente all’interno del partito è ancora fornita dal vecchio gruppo dirigente dei Ds, ossia da un ceto politico formatosi all’interno del vecchio Partito Comunista Italiano. E, dato che il Pci nacque nel 1921 con una netta vocazione “massimalista”, anche oggi il gruppo dirigente del Pd conserverebbe qualcosa di quella antica eredità, e risulterebbe perciò molto distante sia da una autentica visione “socialdemocratica” sia da una vera cultura “riformista”. In altre parole, secondo queste interpretazioni, la sinistra italiana risulta sostanzialmente ancora impantanata nelle sabbie mobili del leninismo novecentesco e del culto massimalista della rivoluzione, con le inevitabili conseguenze che la componente cattolica finisce col diventare sempre più irrilevante negli equilibri interni, e che la stessa anima autenticamente “riformista” – rappresentata per esempio da posizioni come quelle di Pietro Ichino – diventa sempre più scomoda a mal tollerata.
Benché l’eredità del Pci pesi davvero sul Pd di oggi e sulla sua classe dirigente, è però evidente come al fondo di simili rappresentazioni si trovi più di qualche deformazione. Per chiunque si decida a deporre gli occhiali del conflitto ideologico prima di osservare la realtà, diventa infatti piuttosto scontato che espressioni come “riformismo”, “massimalismo” e “socialdemocrazia” rischiano di diventare del tutto fuorvianti e non servono a comprendere la realtà del Pd più di quanto riesca a farlo la dicotomia di “guelfismo” e “ghibellinismo”. Se certo il Pd conserva ancora un rapporto privilegiato con una parte del mondo sindacale, ha comunque ormai molto poco del vecchio partito di massa togliattiano, e si avvicina piuttosto al profilo del “partito professionale-elettorale”, se non addirittura a quello del “partito di cartello”. In altre parole, si tratta di un partito stabilmente incardinato nella macchina dello Stato, che è al centro di una rete consolidata di interessi economici e che ha stabili rapporti con grandi gruppi di interesse. Dunque qualsiasi riferimento alla tradizione socialista – se sotto il profilo genetico ha qualche rilevanza – dal punto di vista ideologico e da quello strutturale appare quantomeno improprio. Ma, se è opportuno rinunciare a raffigurare le lacerazioni del Pd ricorrendo alle categorie ereditate dalla storia del movimento operaio novecentesco, ciò non significa affatto che, alla base del partito guidato da Pierluigi Bersani non esista effettivamente una contraddizione strutturale. Una contraddizione che va però intesa soprattutto come l’effetto della contrapposizione fra due visioni opposte della società italiana, e dunque fra due diverse idee della missione del Partito Democratico.
La prima di queste due visioni rimanda direttamente al patrimonio culturale ereditato dal Pci togliattiano, ma, soprattutto, da quello specifico modo di guardare all’Italia che Enrico Berlinguer sviluppò nel corso degli anni Settanta. Quando, dopo il golpe cileno del 1973, Berlinguer iniziò sulle pagine di “Rinascita” a delineare la proposta del “compromesso storico”, non si limitò infatti a formulare i termini di una svolta politica che prevedeva un avvicinamento alla Democrazia Cristiana. La proposta del “compromesso storico” scaturiva infatti da una consolidata concezione della società italiana, una concezione che tendeva a coglierne gli elementi di complessità, ma che, in special modo, riconosceva la forza delle resistenze opposte al mutamento radicale prospettato dalle forze ‘progressiste’. In altri termini, pur prendendo atto del mutamento del Paese (un mutamento che il referendum sul divorzio avrebbe peraltro reso ancor più visibile), era necessario tenere conto di quelle componenti della società italiana che si sarebbero opposte a un eventuale successo dell’alternativa socialista. “Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare”, scriveva infatti Berlinguer in un celebre passaggio, “questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse espressione di tale 51 per centro”. Dinanzi a questo scenario, Berlinguer avanzava allora la proposta dell’“alternativa democratica”, che, in una visione certo un po’ semplificata (e forse caricaturale) dei rapporti fra società e sistema politico, doveva indicare la possibilità “di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”. Una collaborazione che – come Berlinguer ribadì al Comitato centrale del Pci nel febbraio 1973 – implicava “l’incontro e la collaborazione di tutte le forze democratiche e anzitutto delle tre grandi componenti del movimento popolare italiano: quella comunista, quella socialista e quella cattolica”.
Come sappiamo, a differenza di quanto era avvenuto in Cile, in Italia l’ipotesi di un’“alternativa socialista” non fu mai realmente sul piatto, e, inoltre, un peso rilevante sulle considerazioni di Berlinguer era giocato da una realistica comprensione della logica della Guerra fredda. Ma ciò che più è rilevante è che Berlinguer – collocandosi in una linea che non rompeva affatto con la prospettiva togliattiana, e che riprendeva anche alcuni punti (certo un po’ deformati) della lettura di Gramsci – proponesse per il Pci un ruolo di guida del cambiamento in una logica di incontro e compromesso con quelle che – nella retorica del tempo – erano le «masse cattoliche». In altri termini, anche se Berlinguer era consapevole della forza elettorale del Pci, e anche delle potenzialità (del tutto ipotetiche) offerte da un cartello elettorale formato dai partiti di sinistra, era altrettanto conscio di come la società italiana fosse tutt’altro che incline ad accogliere senza reazioni l’“alternativa socialista”. E proprio per questo l’ingresso nella “sala dei bottoni” poteva realizzarsi solo molto gradualmente, passando attraverso la strada del compromesso.
Con la fine del Pci e la conclusione della Guerra fredda non solo doveva essere abbandonata l’ipotesi del compromesso storico, accantonata di fatto già alla fine degli anni Settanta, ma dovevano essere fatalmente criticati anche i presupposti stessi che la fondavano. Riconosciuto il fallimento dell’esperimento sovietico, i motivi della lacerazione originaria fra una sinistra riformista e una comunista venivano meno, così come si dissolveva definitivamente l’ipotesi della “via italiana al socialismo”, che aveva definito l’identità del Pci. Ma, soprattutto, dissoltisi i condizionamenti geopolitici, si dissolvevano anche le ragioni alla base del ‘blocco’ del sistema politico italiano, ossia proprio quella conventio ad excludendum che aveva tenuto lontano il Pci dalla sospirata ‘stanza dei bottoni’. All’interno dello schieramento di centro-sinistra, proprio nel passaggio cruciale dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ emerse allora la legittima convinzione che fosse possibile immaginare e costruire finalmente un partito a vocazione maggioritaria: un partito capace di parlare direttamente a tutto l’elettorato ‘progressista’, a tutti i cittadini che si riconoscevano nell’area di centro-sinistra. In qualche misura, anche il Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto e la famigerata “gioiosa macchina da guerra”, protagonista (mancata) della campagna elettorale del 1994, nutrirono questa convinzione. Ma fu senza dubbio Walter Veltroni a esplicitarla in modo paradigmatico nel corso della propria direzione del Pd. Sotto la leadership di Veltroni, il Pd assunse infatti esplicitamente una vocazione ‘maggioritaria’: per un verso, il Pd di Veltroni aspirava cioè a essere l’unico soggetto nel campo del centro-sinistra; per l’altro, puntava anche a porsi direttamente come interlocutore delle forze moderate, degli elettori di centro, di quelle che un tempo erano enfaticamente chiamate le “masse cattoliche”. In altre parole, alla base della scelta di creare in Italia un Partito Democratico stava l’idea che l’Italia avesse bisogno di un sistema simile a quello statunitense. Perciò, ogni riferimento alla tradizione socialista doveva essere accantonato, a vantaggio di un immaginario politico ‘kennedyano’ e alla prospettiva di una sinistra capace di rompere definitivamente con il Novecento europeo (e ovviamente italiano). Inoltre, tutti i piccoli partiti – espressione di identità marginali – dovevano lasciare il posto a una contrapposizione chiara fra due soli partiti. E, dunque, doveva venire meno – insieme ai partiti collocati sulle ali estreme – ogni autonoma formazione di centro.
L’investitura di Veltroni al vertice del Pd rifletteva in modo emblematico l’impressionante continuità fra il gruppo dirigente del Pci, il gruppo fondatore del Pds e la leadership del nuovo partito. Ciò nondimeno, alla base del progetto politico dell’ex sindaco di Roma stava una rottura netta con la visione dell’Italia che avevano fornito – seppur con accenti ben diversi – gli storici leader del Partito Comunista, e soprattutto con il quadro interpretativo che aveva suggerito a Berlinguer l’opportunità del “compromesso storico”.
A dividere la vecchia visione di Berlinguer dalla nuova visione di Veltroni non infatti erano soltanto gli accenti ideologici o gli espediente retorici. A divaricarle l’una dall’altra era soprattutto una concezione opposta dell’Italia. Se per Berlinguer, l’Italia rimaneva – persino negli anni Settanta – un paese in cui i motivi di ostilità alla sinistra erano radicati, e non solo congiunturali, per Veltroni la società italiana aveva ormai abbandonato ogni stabile identificazione partitica e del tutto smarrito ogni affiliazione ideologica. Per il leader del Pd, si trattava solo di saper parlare a tutti, abbandonando ogni riferimento alla vetusta paccottiglia socialista, perché in questo modo gli elettori sarebbero accorsi anche dal centro e forse persino da destra. E la ormai quasi proverbiale formula “ma anche” veniva così a sintetizzare perfettamente il progetto di ‘inglobare’ all’interno del Pd settori sociali e anime politiche che avevano fino a quel momento trovato altrove i loro interlocutori.
Il battesimo del fuoco delle elezioni del 2008 sancì una pesantissima sconfitta per il progetto di Veltroni, ma il fatto che la sconfitta del Pd contro la coalizione di centro-destra fosse compensata dalla vittoria riportata nel ‘taglio dei cespugli’ della vecchia Unione finì con l’ostacolare almeno in parte una seria discussione sulle motivazioni alla base del risultato. Molti spiegarono così l’esito tanto deludente del Pd ricorrendo alla performance negativa offerta dal governo guidato da Prodi nei due anni precedenti, ma, al tempo stesso, salutarono positivamente la ‘semplificazione’ della competizione politica, sempre più vicina a quella di un ‘paese normale’. Una parte consistente del partito iniziò invece a ritenere che le motivazioni del fallimento del partito a vocazione maggioritaria non fossero da imputare esclusivamente al disfacimento di quella sorta di ‘armata Brancaleone’ che era stata l’Unione di Prodi, o ad altre componenti ‘congiunturali’. In realtà, la spiegazione era da ritrovare nelle stesse caratteristiche della società italiana, e la lettura – benché ovviamente aggiornata – non era da questo punto di vista così diversa da quella proposta da Berlinguer negli anni Settanta. Naturalmente, l’orizzonte non poteva essere più quello dell’“alternativa socialista”, e, molto più prosaicamente, diventava il superamento del “berlusconismo”. Ma l’ostacolo era in fondo lo stesso. In altri termini, si doveva riconoscere come l’elettorato italiano fosse orientato in senso maggioritario non verso sinistra, ma tendenzialmente verso destra. Dunque, il disegno di un partito a vocazione maggioritaria doveva quasi inevitabilmente riaccendere un’ostilità che – nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti – non appariva poi così diversa da quella registrata dalle urne il 18 aprile 1948. In altre parole, la prospettiva di una divisione netta fra un partito di sinistra e un partito di destra sembrava destinata a riattivare la profonda frattura ‘anti-comunista’, una frattura capace di resistere paradossalmente al tramonto del comunismo novecentesco, alla dissoluzione dell’Urss e all’abbandono da parte della sinistra italiana di qualsiasi riferimento non incidentale alla tradizione socialista. Per questo, l’unica possibilità per tornare a vincere, e soprattutto per riuscire a esercitare stabilmente una funzione di governo, doveva passare ancora volta per la strada di una larga coalizione: una coalizione comprendente almeno in parte i ‘cespugli’ di sinistra, ma soprattutto un centro forte, un centro in grado di attrarre – o quantomeno di non respingere – quell’elettorato centrista ancora sensibile ai timori ‘anti-comunisti’, a quella sorta di atavica fobia per la sinistra che pare contrassegnare una quota significativa della società italiana. D’altronde, l’esito delle elezioni del 1994, del 2001 e del 2008 sembra confermare questa percezione: tutte le volte che la coalizione di centro-sinistra si è presentata agli elettori senza l’appoggio della sinistra radicale (nelle elezioni del 2001 e del 2008) o senza l’appoggio di formazioni centriste (nel 1994 e nel 2008) è stata sconfitta. Al contrario, nelle due occasioni in cui si è costruita un’ampia coalizione (da sinistra al centro), capeggiata peraltro da un candidato non proveniente dal Pci come Romano Prodi, il risultato elettorale è stato positivo (anche se in entrambi i casi il cartello elettorale si è dimostrato tutt’altro che solido alla prova del governo).
Archiviate le fantasmagorie della retorica veltroniana, la segreteria di Pierluigi Bersani si è mossa proprio in questa direzione. Dietro il tentativo di ricostruire un rapporto con la tradizione socialista, portato avanti da Bersani, molti hanno intravisto un nuovo episodio dell’eterna lotta fra Veltroni e Massimo D’Alema. In realtà, alla base di quell’opzione stava l’abbandono del progetto di un partito a vocazione maggioritaria e il ritorno a una visione aggiornata del vecchio “compromesso storico” berlingueriano. Pur senza dimenticare l’esito fallimentare del 2006, le principali operazioni compiute dal Pd negli ultimi tre anni – la riapertura a Sel, il fitto dialogo intrattenuto negli ultimi tre anni con l’Udc, oltre che lo stesso appoggio al governo ‘tecnico’ – hanno in effetti palesato l’intenzione di ricostituire un’alleanza ampia, capace al tempo stesso di conservare saldi rapporti con una sinistra connotata in senso più radicale e di intavolare una discussione con Casini, con la chiara (benché sempre implicita) prospettiva di un governo comune. Naturalmente, dopo la catastrofe dell’Unione, l’idea di una coalizione elettorale da Vendola a Casini sarebbe risultata improponibile. E proprio per questo, l’unica soluzione credibile doveva essere la conclusione di una coalizione di governo dopo le elezioni. In altre parole, i partiti, in questo disegno, avrebbero dovuto riconquistare la loro autonomia, concludendo in Parlamento quel ‘compromesso’ per molti versi irrealizzabile nelle urne, in una società ancora lacerata da vecchie ma resistenti fratture identitarie. In effetti, il Pd ha così auspicato – almeno fino a un certo punto – il rafforzamento di un centro forte, autorevole, e soprattutto autonomo dal Pdl, perché solo un centro autonomo avrebbe consentito la costituzione, dopo le elezioni, di una solida alleanza di governo fra le diverse componenti della sinistra e del centro. Ma, giunti a pochi mesi dalle elezioni, il Pd ha improvvisamente cambiato rotta, tornando ad adottare la prospettiva veltroniana.
La scelta di tornare all’idea di un partito a vocazione maggioritaria non è stata compiuta in modo consapevole, e non è stata neppure esplicitata dal segretario del Pd. A ben vedere, si è trattato infatti solo della conseguenza – forse persino inconsapevole – della decisione del Pd di non modificare la legge elettorale. Dato che nell’ultimo anno i sondaggi hanno costantemente attribuito al Pd una rilevante maggioranza relativa dei voti (e uno scarto superiore al 10% rispetto alla coalizione di centro-destra, d’altro canto tutt’altro che omogenea al proprio interno), nella classe dirigente del partito si è consolidata la convinzione di potere finalmente raccogliere i frutti della disgregazione del Pdl e del fallimento del “berlusconismo”. La conclusione a cui è giunto il Pd è d’altronde tutt’altro che irragionevole: l’attuale sistema elettorale potrebbe consentire al Pd di ottenere, insieme a Sel, la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, pur disponendo solo di un 35-40% dei suffragi. Inoltre, l’innalzamento della soglia per poter beneficiare del premio di maggioranza avrebbe riattivato il protagonismo dei ‘cespugli’ (soprattutto di sinistra), e, probabilmente, anche rafforzato il centro più di quanto la leadership del Pd non auspicasse. La possibilità di far pesare, grazie al sistema elettorale, la propria forza relativa contro un fronte avversario frammentato si è così rilevata un incentivo troppo pressante per il Pd, e – come era davvero prevedibile – è saltata ogni trattativa sulla riforma della legge elettorale. Ma il punto è che, decidendo di conservare il ‘Porcellum’, il Pd ha di fatto contraddetto la trama tessuta negli ultimi tre anni. E proprio questa scelta potrebbe avere un peso decisivo sugli esiti della campagna elettorale.
Conservando il ‘Porcellum’ e recuperando (implicitamente) il disegno veltroniano del partito a vocazione maggioritaria, il Pd corre infatti almeno tre grandi rischi. In primo luogo, non disinnesca il meccanismo che privilegia i due principali ‘oligopoli’: in questo senso, consegna dunque a Silvio Berlusconi una formidabile arma per tornare ancora una volta in campo, per combattere una battaglia, al tempo stesso, contro Monti e contro la sinistra. In secondo luogo, l’attuale sistema elettorale rende molto difficile una rilevante affermazione del centro, che – pur con tutte le incognite di una campagna elettorale – ha più probabilità di rosicchiare voti alla sinistra che di insidiare in modo significativo il Pdl. In terzo luogo, un’eventuale vittoria della coalizione di sinistra (che comunque rimane a tutt’oggi probabile, sebbene tutt’altro che scontata) porrebbe il partito di Bersani dinanzi alla difficoltà di governare un paese che – nonostante le sventure di Berlusconi e la china discendente del Pdl – gli sarebbe per molti versi ostile. E se il segretario del Pci ammoniva negli anni Settanta sull’impossibilità di realizzare una radicale riforma della società con il 51% dei voti, è oggi facile immaginare come sia difficile governare per il Pd con il 32-35% dei suffragi, in un periodo che si prospetta tutt’altro che roseo.
D’altronde, mentre pochi mesi fa il Pd sembrava avviato verso una facile vittoria, le cose diventano di giorno in giorno più complicate, e sono probabilmente destinate a diventarlo sempre di più nei prossimi mesi. La breve campagna elettorale che ci aspetta si profila come tutt’altro che pacifica, e prevederne gli esiti sarebbe imprudente. Ma i dirigenti del Pd non dovrebbero semplicemente preoccuparsi dagli spettri di un Berlusconi redivivo o di una rinnovata Democrazia Cristiana, perché dovrebbero interrogarsi soprattutto sulle responsabilità delle scelte mancate, che rischiano di insabbiare il sistema politico italiano nelle secche di una ‘Seconda Repubblica’ ormai al capolinea. E, per dirla con una battuta, a turbare il loro sonno dovrebbe essere soprattutto il fantasma di Berlinguer.