di Angelica Stramazzi
Accade spesso che, per commentare situazioni particolarmente significative dal punto di vista del mantenimento (o dello stravolgimento) degli equilibri politici esistenti, sia necessario fermarsi a riflettere: far trascorrere qualche giorno, indispensabile per metabolizzare l’avvenimento che si desidera trattare, riordinare i pensieri, organizzare esaustivamente il ragionamento che si intende proporre (e presentare all’esterno), cercando preferibilmente di dar vita ad una sintesi che sia in grado di riassumere quanto accaduto fino a qualche tempo prima. A chi potrebbe infatti giovare un’analisi condotta in maniera impulsiva e frettolosa, mentre gli eventi (e le novità politiche) continuano a succedersi velocemente, senza concedere al tempo (e al pensiero) di potersi dilatare, estendere, frammentarsi per poi ricomporsi?
Sono trascorse quasi due settimane da quando il Presidente del Consiglio Mario Monti, incassata la sfiducia – sì, la sfiducia – del Pdl sul decreto Sviluppo, ha deciso di formalizzare, dopo un colloquio con il Capo dello Stato, le sue dimissioni, dichiarando sostanzialmente di non essere più disposto, a pochi mesi di distanza dalla sua scadenza naturale, di portare a termine la legislatura. Del resto, il varo del governo tecnico, al netto dei condizionamenti e delle interferenze espresse sulla sua nascita e conseguente formazione da Napolitano, si era reso necessario non solo per manifesta incapacità dell’allora maggioranza di continuare nella sua azione, sebbene non vada affatto dimenticata l’ondata speculativa che, un anno fa, si stava abbattendo sull’Italia; ma soprattutto perché, a fronte dell’assenza di leader e di alternative politiche credibili e in grado di risanare l’economia del Paese, si era pensato che personalità tecniche, e dunque politicamente “asettiche”, non compromesse – o, perlomeno, non eccessivamente – con le degenerazioni del potere politico di cui, sempre più frequentemente, si viene a conoscenza, fossero in grado di imprimere una svolta significativa al sistema Paese. Tuttavia, ad un anno di distanza dal suo insediamento, il governo dei tecnici e dei professori ha dimostrato di non essere all’altezza del compito che, in origine, gli era stato assegnato; ed i provvedimenti che hanno davvero rivoluzionato – o modificato radicalmente – i settori in cui si era stabilito di intervenire, sono stati assai pochi. Già questo, ossia la mancata realizzazione dell’agenda programmatica definita ad inizio mandato, dovrebbe bastare per decretare un passo indietro di qualsivoglia esecutivo. Ma, sotto questo frangente, la storia politica italiana (la più recente) è maestra di vita: e (ci) insegna che una compagine governativa può benissimo procedere per forza di inerzia, senza assolvere minimamente al criterio della cosiddetta “responsiveness”, che poi equivale alle risposte, formulate in termini di politiche pubbliche, che un governo è in grado di rendere ai cittadini.
Quasi due settimana fa, Monti ha dunque preso atto di non avere più il sostegno di una parte di quella «strana maggioranza» che lo aveva in precedenza appoggiato; e, in maniera responsabile, ha comunicato al Capo dello Stato, la sua decisione di fare un passo indietro. Ma – è questo l’interrogativo che ora si pongono in molti – siamo davvero così certi e sicuri che il Professore sia intenzionato a ritirarsi definitivamente dalla contesa politica, fermo restando che dovrà, per forza di cose, comunque ricoprire l’incarico di senatore a vita?
Come ha giustamente scritto su queste colonne Alessandro Campi, attualmente si tratta di capire se Monti «intende accettare (o eventualmente rifiutare una volta per tutte) l’invito a guidare un raggruppamento di partiti e movimenti civili il cui obiettivo non dovrebbe essere quello di perpetuare in modo pedissequo l’esperienza di un esecutivo più burocratico che tecnico […] ma quello di dare vita ad un’originale ed innovativa proposta politico – elettorale: un cartello riformista di matrice cattolico – liberale che si misuri nelle urne con gli altri tre blocchi politici che ormai si sono chiaramente delineati». In questo senso (e contesto) si spiega la partecipazione di Monti al vertice del Partito Popolare Europeo del 13 dicembre scorso: la volontà di collocarsi chiaramente all’interno di uno schieramento politico che rimanda ai valori del popolarismo europeo e che, al tempo stesso, sia in grado di garantire, sul versante italiano, quella stabilità che non solo i mercati invocano a gran voce per il prossimo futuro. Non dovrebbero quindi stupire poi più di tanto i numerosi – e per certi versi eccessivi – attestati di stima, provenienti dai maggiori leader europei, che il Presidente del Consiglio ha ricevuto nelle ore trascorse a Bruxelles: alternative politiche credibili (per ora) non si intravedono; e le forze del centrosinistra stanno facendo i conti con il pericolo – ampiamente sperimentato in passato – di trovarsi, nel caso di una ipotetica vittoria, in una condizione di stallo, riconducibile (ed imputabile) ad alleanze costruite sul momento e con il solo obiettivo di riuscire a decretare la sconfitta dello schieramento avverso. Ecco perché il fronte dei moderati, ampiamente frammentato sul versante politico ma largamente maggioritario nel Paese, dovrà, per forza di cose, ricomporsi e trovare un’unità di intenti tale da preservare quella ritrovata stabilità che è appena tangibile ma, per sua natura, altrettanto effimera. Infine, toccherà al centrosinistra dimostrare di non temere più l’avversario, che ieri aveva il nome di Silvio Berlusconi e che, in un domani sempre più vicino, potrebbe avere quello di Mario Monti. Bersani e soci aprano una volta per tutte al confronto democratico: non solo interno, ma soprattutto su scala nazionale.