di Damiano Palano

Benché siano trascorsi solo pochi anni, non molti ricordano oggi l’effimera parabola dell’«Italia dei girotondi», ossia di quelle mobilitazioni che, al di fuori dei partiti, adottarono come forma di protesta il più classico dei giochi infantili. Forse la scelta non fu del tutto consapevole, ma il fatto che la catena umana volta a stringere in un abbraccio protettivo i Palazzi di Giustizia diventasse simile a un «girotondo» si trasformò in una trovata indubbiamente piuttosto evocativa. In effetti, nel repertorio dei movimenti di protesta italiani, il «girotondo» costituiva un’innovazione, destinata per questo a imprimersi nell’immaginario mediatico. Ma non era forse solo l’originalità della forma adottata dalla protesta a spiegare l’imprevisto successo di un movimento, capace di conquistare proseliti in una fascia di età e in gruppi sociali non così adusi alle manifestazioni di piazza. Forse, una parte di quel successo era dovuta alla stessa immagine di innocenza del «girotondo», all’aura di purezza infantile che doveva circondarlo. Una ‘purezza’ quasi virginale, destinata a risaltare ulteriormente non solo nel contrasto con la ‘corruzione’ – morale, prima che politica – attribuita al Palazzo e ai suoi occupanti, ma anche in confronto con le forme di protesta della tradizione dei movimenti italiani, inguaribilmente affetti da tendenze leniniste, dal culto della forza, dal fascino per lo scontro di piazza.

Quel movimento, sorto quasi per caso, non aveva una chiara connotazione partitica, e anzi si poneva in modo piuttosto esplicito contro la leadership di una sinistra ritenuta incapace, o peggio connivente con il fronte avversario, ma certo aveva più di qualche tratto in comune con quelle forme di mobilitazione cresciute, a partire dai primi anni Novanta, spesso nel cono di luce dei riflettori televisivi: la «gente» e la «piazza» delle trasmissioni di Michele Santoro, o il «popolo dei fax», in lotta con i vertici dei partiti di sinistra. Anche per questo, i ‘girotondini’ trovarono leader più o meno improvvisati nel mondo dello spettacolo e qualche sponda politica nell’Italia dei Valori. Ma l’autentico, solido riferimento dei «girotondi» divennero probabilmente la rivista «Micromega» e il suo direttore storico, Paolo Flores d’Arcais, non tanto (o non solo) per il ruolo svolto dalla rivista nel propalare le ragioni della mobilitazione, quanto perché «Micromega» aveva contribuito nel corso di un decennio a definire quell’informale bagaglio ideologico cui attingeva la protesta. Negli appelli dei ‘girotondini’, si ritrovavano infatti quegli stessi motivi che, a partire dai primi anni Novanta, avevano affollato le pagine di «Micromega»: dal culto della ‘legalità’, alla celebrazione del ruolo politico della magistratura, intesa come custode delle istituzioni contro l’invadenza della classe politica; dalle critiche contro la casta dei partiti, all’attenzione ossessiva per l’oscuro passato (e il presente non troppo limpido) del leader dello schieramento di centro-destra.

Da quei giorni, molta acqua è passata sotto i ponti, e sarebbe perciò quasi scontato limitarsi a riconoscere come l’energia di quell’effimero movimento – in un contesto politico ormai completamente mutato, e sempre più vicino alla genesi di una Terza Repubblica – sia destinata a non macinare più nulla. Probabilmente, le cose non sono però così semplici, perché – si sa – il mondo intellettuale tende talvolta a registrare molto lentamente i mutamenti storico-politici, e continua così a riproporre per inerzia motivi del tutto anacronistici. Così, tra le tante eredità del «berlusconismo» che sopravviveranno alla parabola politica del fondatore di Forza Italia, una di quelle più durature rischia di rivelarsi proprio l’impasto ideologico cui «Micromega» ha offerto il cemento, e che rappresenta senza dubbio uno dei fenomeni intellettuali più interessanti della cultura italiana dell’ultimo secolo.

Anche per questi motivi, è utile oggi leggere il recente Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta (Add editore, pp. 159, euro 7.00), con cui Paolo Flores d’Arcais interviene nel dibattito sulla crisi della democrazia contemporanea, fissando al tempo stesso le tessere principali di un mosaico articolato. Il saggio di Flores d’Arcais si pone a metà fra la riflessione teorica e il pamphlet politico, e questo tratto risulta d’altronde visibile dalla collocazione in una collana, aperta dall’ormai celebre Indignatevi! di Stéphane Hessel, che ha trasformato il punto esclamativo (quasi) immancabilmente presente nei titoli in una sorta di marchio editoriale e in una specie di certificazione dell’impegno militante. La connotazione ‘pamphlettistica’ non indebolisce però l’operazione di Flores d’Arcais, e, semmai, ne fa emergere in modo più nitido le coordinate teoriche, che comunque – è bene precisarlo – sono tutt’altro che prive di elementi antinomici. D’altronde, il problema che si pone il direttore di «Micromega» – capire cosa sia effettivamente la «democrazia» – è tutt’altro che di agevole soluzione, e si presenta anzi come un vero e proprio rompicapo, con cui la teoria politica contemporanea si trova costantemente alle prese. Dinanzi allo scarto fra la democrazia ideale e le democrazie ideali, Flores d’Arcais non ammette però compromessi, nel senso che non accetta l’ipotesi che i due piani dell’essere e del dover essere possano essere scissi. E, dunque, cerca di risolvere il problema di «delineare il muro di cinta concettuale e istituzionale di una democrazia presa sul serio, quale invalicabile approssimazione asintotica di una democrazia presa alla lettera» (p. 19).

Per quanto punti a ‘prendere sul serio’ la democrazia, e cioè a difendere la versione ‘forte’ degli ideali democratici, Flores d’Arcais non nega vi siano nella democrazia una serie di antinomie e contraddizioni, fra cui soprattutto l’antinomia fra la volontà collettiva e la volontà individuale, fra la democrazia come autogoverno e la necessità della rappresentanza, fra gli interessi dei rappresentati e l’autonomia dei rappresentanti: tutte antinomie che si riducono a una più generale antinomia fra potere e libertà, perché, dato che «libertà/potere vanno insieme», allora «l’esercizio del potere di una parte è la perdita della libertà dell’altra» (p. 30). Una soluzione potrebbe consistere nel dominio della Legge, capace di limitare il potere degli uomini, ma anche le leggi sono costruite dagli uomini, e dunque per questa strada non si può evitare del tutto il rischio di una deriva totalitaria. In qualche misura, si torna dunque sempre al problema del fondamento della democrazia, ossia al fatto che la democrazia è priva di un fondamento che non sia la democrazia stessa: il demos che stabilisce le proprie regole di convivenza. Da questo punto di vista – osserva allora Flores d’Arcais – la democrazia si trova un po’ nella medesima situazione del Barone di Münchausen, che voleva uscire dalla palude sollevandosi per il proprio codino. Ma è qui che si colloca la proposta di Flores d’Arcais: «Come uscire da questa sarabanda di vicoli ciechi? Con un principio che faccia l’unanimità, e non possa non farla. Questi diritti, queste libertà/potere, per essere riconosciuti da tutti nel patto fondamentale e costituente, non possono nascere da arbitraria preferenza su ciò che la democrazia dovrebbe essere, ma scaturisce dal contenuto procedurale minimo della democrazia: una testa, un voto. Principio che nessuno può contestare, perché già lo sta usando – e non può fare a meno di usarlo – nella pratica di ogni decisione, se in essa nessun ‘ciascuno’ deve essere discriminato» (p. 33).

Una volta fissato questo procedurale minimo della democrazia, Flores d’Arcais può risolvere una serie di questioni relative ai rapporti che la democrazia intrattiene con la legalità, con la verità, con l’ateismo, con l’illuminismo di massa, con il denaro, con la morale, con la rivolta. Quello che ne esce è una sorta di catechismo, certo suggestivo, anche se non privo di notevoli ambiguità, che possono essere ricondotte ad almeno tre evidenti aporie.

In primo luogo, il punto principale su cui Flores d’Arcais insiste è il rifiuto di ogni minimalismo democratico, in nome di un impegno a difesa di un’espansione della democrazia: «la democrazia è innanzitutto e sempre lotta-per-la democrazia, e più esattamente l’habitat etico-politico-istituzionale in cui tale lotta si può svolgere nelle condizioni più favorevoli e con i minori sacrifici per chi (in numero crescente) vi spende passione civile. Tanto più si dà democrazia, insomma, quanto maggiori in una società sono i ‘privilegi’ per la lotta contro ogni privilegio, e più alto in essa il grado di riconoscimento, accoglienza, infine plauso per ogni agire che, nella diffusione del sapere critico, incrementi la somma algebrica di libertà, eguaglianza e fratellanza, sia distintamente sia cumulativamente» (p. 149). Così, scrive Flores d’Arcais: «La democrazia è la rivolta permanente e incontentabile per approssimare la democrazia. La pazienza e l’ironia le sue due virtù» (p. 151). Una simile visione della democrazia ha progenitori celebri nei teorici della democrazia radicale e della democrazia partecipativa, e conduce alla logica conclusione secondo cui la democrazia – intesa come aspirazione all’eguaglianza reale, alla partecipazione, all’espansione dei diritti – coincide con una forte pressione ‘dal basso’ nei confronti di tutte quelle tendenze che, ai vertici delle istituzioni, tendono (consapevolmente o inconsapevolmente) verso la sclerotizzazione. Di per sé, dunque, si tratta di una posizione senza dubbio coerente e legittima, anche se può non essere accolta, altrettanto comprensibilmente, da quanti (per varie ragioni) tendono a considerare l’ordine sociale come più rilevante rispetto alle richieste di eguaglianza. Ma certo non può non stupire che l’esaltazione della democrazia come rivolta permanente riesca a convivere nella proposta di Flores d’Arcais con la celebrazione della priorità della legalità sul consenso: «proprio a partire dal suo nucleo procedurale minimo, ‘una testa, un voto’», scrive per esempio, «la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno confessa come suo comandamento il primato della legalità sul consenso» (p. 41). E, sempre sullo stesso tenore, precisa: «Ogni reato deve essere perseguito, abbiamo visto che un reato mai perseguito è di fatto un reato abrogato, con l’aggravante di poter essere in ogni momento rispolverato ad personam. L’obbligatorietà dell’azione penale è perciò stella polare dell’imparzialità» (p. 43). Le motivazioni storico-politiche di questa affermazione sono scontate, perché proprio il principio della legalità e la celebrazione del ruolo di custode della legge svolto dalla magistratura costituiscono una delle componenti fondamentali della magmatica ‘ideologia’ di «Micromega». Ma la contraddizione fra la democrazia come rivolta e la democrazia come legalità non può che risultare addirittura travolgente. Perché, se si assegna la priorità alla legge (intesa peraltro nella visione puramente positivista), allora chiunque si ‘rivolti’ contro la legge, anche per promuovere un’espansione dei diritti o per protestare contro uno stato di cose ritenuto discriminatorio, non può che essere considerato alla stregua di un criminale. E così, per esempio, la «disobbedienza civile» di Henry D. Thoreau finisce col diventare del tutto analoga al comportamento dell’evasore fiscale o del costruttore abusivo, senza che dunque venga teoricamente concepito uno spazio per una critica dell’ordine esistente (non importa se pacifica o violenta), che non coincida per definizione con una forma di sovversione criminale.

A questa prima contraddizione – a ben vedere dirompente, per gli obiettivi che Flores d’Arcais si propone – se ne accompagna una seconda, che riguarda il campo di applicazione del principio ‘una testa, un voto’. In un passaggio di Democrazia! la rivoluzione concettuale di Grozio – e in particolare il suo etsi Deus non daretur – viene considerata come l’antecedente della democrazia, perché comporta l’esilio di Dio dalla sfera pubblica. In questo senso, osserva Flores d’Arcais: «La sovranità di ‘una testa, un voto’ è parallela e consustanziale alla decapitazione della sovranità di Dio. Logicamente, infatti, il potere di tutti-e-di-ciascuno esclude che un qualsivoglia Alto/Altro (e meno che mai Altissimo) possa interferire con il carattere autonomo della legge, facendola collassare e regredire nel buio dell’eteronomia» (p. 67). Anche in questo caso, le motivazioni alla base di una simile affermazione sono più che comprensibili, perché Flores d’Arcais rinfocola quasi a ogni pagina i motivi di una forte polemica anti-clericale. Ma l’entusiasmo per l’esclusione di Dio dall’arena politica non può sollevare qualche perplessità. Non tanto perché, in questo modo, con una torsione quantomeno singolare, si finisce col ritrovare la pietra di fondazione della democrazia non nell’Atene di Pericle, o nei dibattiti di Putney, o nella Rivoluzione francese, bensì nella Pace di Vestfalia. Quanto perché Flores d’Arcais – in cambio dell’espulsione di Dio dall’arena politica – finisce così con l’adottare in modo del tutto acritico l’impronta statalista della modernità europea, e dunque col trasformare proprio lo Stato in un onnipresente Dio mortale. Anche in questo caso si tratterebbe di un’operazione legittima (e d’altronde tutt’altro che originale), se non risultasse in radicale contraddizione con quella visione per cui la democrazia non ha fondamento se non il minimo procedurale del principio ‘una testa, un voto’. In altre parole, la democrazia – lungi dall’essere priva di fondamento – finisce così per mostrare il proprio solidissimo fondamento nello Stato, ossia nella supremazia dell’unità statale su qualsiasi altra associazione politica presente nel suo territorio. Non si tratta in verità di un equivoco, cui Flores d’Arcais incorre incidentalmente. In realtà, la sua operazione può stare in piedi solo poggiando sulla centralità dello Stato, di fatto monopolista della politicità come nella dottrina giuridica ottocentesca. L’adozione di questo implicito presupposto consente infatti a Flores d’Arcais di non approfondire tutta una serie di questioni che sarebbero per esempio sollevate dal principio ‘una testa, un voto’, come soprattutto quello dei confini in cui tale principio deve essere applicato. Per esempio, il principio ‘una testa, un voto’ può essere adottato e pienamente rispettato all’interno di un’organizzazione criminale, di una formazione terrorista, o a bordo di una nave pirata. Ma tali elementi sono tali da spingere Flores d’Arcais a riconoscere che si tratta di democrazia? Probabilmente no, ma non è certo sufficiente, per risolvere la questione, evocare il mancato rispetto del principio di legalità, perché in questo modo si riproporrebbe soltanto il classico quesito sulla differenza fra i grandi crimini di un uomo di Stato e i piccoli crimini del capitano di un vascello pirata. Logicamente, questo quesito può essere risolto solo assumendo che una determinata entità politica – per gli obiettivi che persegue, per la sua forza materiale, per i suoi riferimenti morali – risulti superiore alle altre. E, a ben vedere, benché non sia certo disposto ad ammetterlo, è proprio questa la soluzione che adotta Flores d’Arcais, quando assume implicitamente che lo Stato sia la ‘comunità naturale’ in cui va pensata e collocata la ‘vera’ democrazia. In questo modo, si palesa però una nuova contraddizione fra la democrazia come rivolta e la democrazia come Stato, perché gli obiettivi dello Stato – a partire dalla sua sopravvivenza, dalla tutela della sua sicurezza, dalla difesa dei suoi confini da minacce esterne – non possono che porsi ben al di sopra di tutti gli altri singoli obiettivi politici, oltre che, soprattutto, di quel principio procedurale ‘una testa, un voto’ che dovrebbe invece costituire la pietra di fondazione dell’ordine politico.

Questa contraddizione conduce infine a un’ulteriore aporia logica, che si manifesta a proposito del carattere dell’ethos della democrazia, inteso come la base su cui si regge l’ordine democratico. Flores d’Arcais nega che l’ethos possa essere inteso in un primato dello Stato etico, perché, ai suoi occhi, si può trattare solo di un coerente sviluppo del principio ‘una testa, un voto’. In altre parole, come scrive, «l’etica democratica è […] il brodo di coltura e la nicchia ecologica per il fiorire dell’autonomia, che garantisce perciò a tutti-e-ciascuno di scegliere i propri fini, di vivere la propria etica, di scegliere liberamente […] in un pluralismo-relativismo al riparo da imposizioni tanto confessionali quanto statuali» (p. 128). Una simile posizione è evidentemente in patente contraddizione con l’assunto della supremazia dello Stato che, come si è visto, si muove sempre sullo sfondo dei ragionamenti di Flores d’Arcais. Ma è in contraddizione anche con un altro elemento, che concerne la convinzione che la democrazia possa reggersi sul presupposto di una con-divisione: «la democrazia è una con-divisione, dove il con e la divisione si intrecciano in equilibrio precario. È una comunità pluralistica, dunque divisa: da conflittualità etiche, di opinione, di interessi. Che tuttavia con-vivono, se e perché tenute insieme dal comune riconoscimento di una regola minima (‘una testa, un voto’) e dalla condizioni di possibilità (trascendentali in senso kantiano) del suo esercizio. Questo essere-insieme, che i succitati conflitti mettono costantemente insieme e strutturalmente a repentaglio, collassa nel tribalismo (degli interessi, dei valori, e infine di sangue e suolo) e nella ghettizzazione reciproca, se non può contare sul collante del dia-logos che rende i cittadini con-cittadini: il loro rapportarsi attraverso la comune volontà/disponibilità alla persuasione reciproca, anziché alla mera prova di forza tra spurghi pulsionali afasici» (pp. 82-83). In sostanza, Flores d’Arcais si trova qui alle prese con la necessità di fondare la democrazia su un elemento che non sia puramente procedurale, ossia su qualcosa che sia prima delle regole (e della stessa regola ‘una testa, un voto’). E, a dispetto dell’abilità acrobatica, è evidente che non si tratta né di un elemento puramente razionale, né di una norma procedurale, bensì di un elemento ‘etico’, che rende omogeneo e coerente ciò che potenzialmente non lo è affatto. In qualche misura, Flores d’Arcais dovrebbe così ammettere che alla base di ogni democrazia, come in fondo di ogni altra comunità politica, si trova un noi, la cui base è – per così dire – trascendente. Dovrebbe dunque ammettere che, alla base di ogni comunità democratica, c’è sempre un fondamento ‘religioso’, anche se si può trattare di una religione politica vigorosamente atea come quelle novecentesche. Perché solo in questo modo gli interessi del singolo (persino la sua sicurezza e la sua vita) possono essere considerati come ‘sacrificabili’ legittimamente, anche all’interno di una democrazia. Flores d’Arcais non può però compiere questo passo, perché, se lo facesse, il suo intero castello teorico crollerebbe. Forse, è proprio questo mancato riconoscimento che finisce però con lo svelare nel modo più chiaro il limite dell’operazione di Flores d’Arcais e dell’intero pastiche ideologico di «Micromega».

A ben vedere, il limite che emerge dalle tante contraddizioni del discorso di Flores d’Arcais non consiste tanto in un vizio teorico, come molti ne possono esistere, quanto nella stessa prospettiva da cui la politica viene pensata e osservata. Una prospettiva che non è solo ‘moralistica’ o ‘anti-politica’ per le prese di posizione che suggerisce, per la condanna di un certo modo di fare politica, per la critica della forma-partito che tende ad alimentare. Tutte queste posizioni sono storicamente comprensibili, e da un certo punto di vista sono l’espressione di un disagio più che legittimo. Il punto è che quella prospettiva – che si trova fissata in modo paradigmatico nelle pagine di Flores d’Arcais – si rivela come strutturalmente ‘anti-politica’ perché nega (o, meglio, rimuove) quelli che sono gli elementi costantemente presenti nei fenomeni politici, e si mostra come ‘moralistica’ perché considera quegli elementi esclusivamente come deviazioni morali, come espressione di una corruzione dei costumi, come segnali di una decadenza da un’età dell’oro mitizzata. Proprio da questa prospettiva ‘anti-politica’ deriva una visione del mondo che sembra davvero avvicinarsi molto a quello «spirito postpolitico» in cui Chantal Mouffe ha individuato il tratto distintivo dello Zeitgeist contemporaneo. Come i grandi paladini dello spirito postpolitico, anche Flores d’Arcais tende infatti a spostare il conflitto politico su un terreno puramente morale, in cui gli avversari non possono che mostrarsi come moralmente indegni, mentre la proposta di un rinnovamento politico assume invariabilmente i connotati di una sorta di ‘ritorno alle origini’, di una riconquista della purezza smarrita, di una celebrazione di una verginità perduta. In questo senso, il simbolo del ‘girotondo’ diventa così davvero la cifra di un moralismo democratico che fa della purezza, di una sorta di vero e proprio infantilismo politico, il perno di un armamentario retorico inevitabilmente manicheo.

Forse il prezzo più caro di questo rivendicato ‘infantilismo democratico’ non consiste però nella deriva moralistica. A ben vedere, la conseguenza peggiore sta infatti nella stessa rimozione del potere: non solo della grande, terribile, questione del ‘potere’, come strumento di governo e di trasformazione, ma della stessa analisi realistica del potere e delle sue trasformazioni. Quando oggi Flores d’Arcais riconosce rassegnato i tratti del dominio esercitato dalla finanza sulle nostre democrazie riprende un motivo oggi adottato un po’ da tutti. Ma, forse, dovrebbe riconoscere come oggi emergano i risultati di trasformazioni durature delle nostre società, trasformazioni che non sono certo cominciate oggi, ma che a lungo Floris d’Arcais e le pagine di «Micromega» hanno preferito trascurare, ritenendo forse che la battaglia per la democrazia si risolvesse solo in una campagna per la moralizzazione della politica italiana. Oggi bisogna riconoscere che si trattava di un clamoroso, fatale abbaglio, che la ‘morale pubblica’ non è certo irrilevante, ma che qualsiasi richiamo morale, non incardinato in una forza materiale, rischia di finire non molto diversamente da una predica gettata al vento. Ma forse anche bisogna riconoscere che tutte le illusioni di quegli anni, insieme alle effimere speranze del moralismo democratico, sono ormai definitivamente tramontate. E che la stagione dei girotondi – nelle sue stesse radici intellettuali, ben più che nelle sue ormai esaurite espressioni politiche – è irrimediabilmente conclusa.

 

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